Italo Calvino,

                                Palomar.

 

 

         Copyright 1983 Giulio Einaudi editore s'p'a'., Torino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Chi è il signor Palomar che questo

libro insegue lungo gli itinerari

delle sue giornate? Il nome richiama

alla mente un potente telescopio, ma

l'attenzione di questo personaggio

pare si posi solo sulle cose che gli

capitano sotto gli occhi nella vita

quotidiana, scrutate nei minimi

dettagli con un'ossessivo scrupolo di

precisione.

  Le esperienze di Palomar consistono

nel concentrarsi ogni volta su un

fenomeno isolato, come se non

esistesse altra cosa al mondo e non ci

fosse né un prima né un poi. Senza

questa messa a fuoco preliminare

nessuna forma di conoscenza gli sembra

possibile, ma l'operazione all'atto

pratico risulta ogni volta meno

semplice di quel che si poteva

credere. L'oggettività e l'immobilità

dell'osservazione si trasformano in

racconto, peripezia, coinvolgimento

della propria persona. Più Palomar

circoscrive il campo dell'esperienza,

più esso si moltiplica al proprio

interno aprendo prospettive

vertiginose, come se in ogni punto

fosse contenuto l'infinito.

  Uomo taciturno, forse perché ha

vissuto troppo a lungo in un'atmosfera

inquinata dal cattivo uso della

parola, Palomar intercetta segnali

fuori d'ogni codice, intreccia

dialoghi muti, tenta di costruirsi una

morale che gli consenta di restare

zitto il più a lungo possibile. Ma

potrà mai sfuggire all'universo del

linguaggio che pervade tutto il dentro

e tutto il fuori di se stesso? Forse è

per rintracciare il filo del discorso

che scorre là dove le parole tacciono,

che egli tende l'orecchio al silenzio

degli spazi infiniti o al fischio

degli uccelli, e cerca di decifrare

l'alfabeto delle onde marine o delle

erbe d'un prato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Le vacanze di Palomar

 

        Palomar sulla spiaggia

          Lettura di un'onda

  Il mare è appena increspato e

piccole onde battono sulla riva

sabbiosa. Il signor Palomar è in piedi

sulla riva e guarda un'onda. Non che

egli sia assorto nella contemplazione

delle onde. Non è assorto, perché sa

bene quello che fa: vuole guardare

un'onda e la guarda. Non sta

contemplando, perché per la

contemplazione ci vuole un

temperamento adatto, uno stato d'animo

adatto e un concorso di circostanze

esterne adatto: e per quanto il signor

Palomar non abbia nulla contro la

contemplazione in linea di principio,

tuttavia nessuna di quelle tre

condizioni si verifica per lui. Infine

non sono "le onde" che lui intende

guardare, ma un'onda singola e basta:

volendo evitare le sensazioni vaghe,

egli si prefigge per ogni suo atto un

oggetto limitato e preciso.

  Il signor Palomar vede spuntare

un'onda in lontananza, crescere,

avvicinarsi, cambiare di forma e di

colore, avvolgersi su se stessa,

rompersi, svanire, rifluire. A questo

punto potrebbe convincersi d'aver

portato a termine l'operazione che

s'era proposto e andarsene. Però

isolare un'onda separandola dall'onda

che immediatamente la segue e pare la

sospinga e talora la raggiunge e

travolge, è molto difficile; così come

separarla dall'onda che la precede e

che sembra trascinarsela dietro verso

la riva, salvo poi magari voltarglisi

contro come per fermarla. Se poi si

considera ogni ondata nel senso

dell'ampiezza, parallelamente alla

costa, è difficile stabilire fin dove

il fronte che avanza s'estende

continuo e dove si separa e segmenta

in onde a sé stanti, distinte per

velocità, forma, forza, direzione.

  Insomma, non si può osservare

un'onda senza tener conto degli

aspetti complessi che concorrono a

formarla e di quelli altrettanto

complessi a cui essa dà luogo. Questi

aspetti variano continuamente, per cui

un'onda è sempre diversa da un'altra

onda; ma è anche vero che ogni onda è

uguale a un'altra onda, anche se non

immediatamente contigua o successiva;

insomma ci sono delle forme e delle

sequenze che si ripetono, sia pur

distribuite irregolarmente nello

spazio e nel tempo. Siccome ciò che il

signor Palomar intende fare in questo

momento è semplicemente vedere

un'onda, cioè cogliere tutte le sue

componenti simultanee senza

trascurarne nessuna, il suo sguardo si

soffermerà sul movimento dell'acqua

che batte sulla riva finché potrà

registrare aspetti che non aveva colto

prima; appena s'accorgerà che le

immagini si ripetono saprà d'aver

visto tutto quel che voleva vedere e

potrà smettere.

  Uomo nervoso che vive in un mondo

frenetico e congestionato, il signor

Palomar tende a ridurre le proprie

relazioni col mondo esterno e per

difendersi dalla nevrastenia generale

cerca quanto più può di tenere le sue

sensazioni sotto controllo.

  La gobba dell'onda venendo avanti

s'alza in un punto più che altrove ed

è di lì che comincia a rimboccarsi di

bianco. Se ciò avviene a una certa

distanza da riva, la schiuma ha il

tempo d'avvolgersi su se stessa e

scomparire di nuovo come inghiottita e

nello stesso momento tornare a

invadere tutto, ma stavolta spuntando

da sotto, come un tappeto bianco che

risale la sponda per accogliere l'onda

che arriva. Però, quando ci s'aspetta

che l'onda rotoli sul tappeto, ci si

accorge che non c'è più l'onda ma solo

il tappeto, e anche questo rapidamente

scompare, diventa un luccichio d'arena

bagnata che si ritira veloce, come se

a respingerlo fosse l'espandersi della

sabbia asciutta e opaca che avanza il

suo confine ondulato.

  Nello stesso tempo bisogna

considerare le rientranze del fronte,

dove l'onda si divide in due ali, una

che tende verso riva da destra a

sinistra e l'altra da sinistra a

destra, e il punto di partenza o

d'arrivo del loro divergere o

convergere è questa punta in negativo,

che segue l'avanzare delle ali ma

sempre trattenuta più indietro e

soggetta al loro sovrapporsi

alternato, finché non viene raggiunta

da un'altra ondata più forte ma

anch'essa con lo stesso problema di

divergenza-convergenza, e poi da

un'altra più forte ancora che risolve

il nodo infrangendolo.

  Prendendo a modello il disegno delle

onde, la spiaggia inoltra nell'acqua

delle punte appena accennate che si

prolungano in banchi di sabbia

sommersi, come le correnti ne formano

e disfano a ogni marea. E' una di

queste basse lingue di sabbia che il

signor Palomar ha scelto come punto

d'osservazione, perché le onde vi

battono obliquamente da una parte e

dall'altra, e scavalcando la

superficie semisommersa s'incontrano

con quelle che arrivano dall'altra

parte. Dunque per capire com'è fatta

un'onda bisogna tener conto di queste

spinte in direzioni opposte che in una

certa misura si controbilanciano e in

una certa misura si sommano, e

producono un infrangersi generale di

tutte le spinte e controspinte nel

solito dilagare di schiuma.

  Il signor Palomar ora cerca di

limitare il suo campo d'osservazione;

se egli tiene presente un quadrato

diciamo di dieci metri di riva per

dieci metri di mare, può completare un

inventario di tutti i movimenti d'onde

che vi si ripetono con varia frequenza

entro un dato intervallo di tempo. La

difficoltà è fissare i confini di

questo quadrato, perché se per esempio

lui considera come lato più distante

da sé la linea rilevata d'un'onda che

avanza, questa linea avvicinandosi a

lui e innalzandosi nasconde ai suoi

occhi tutto ciò che sta dietro; ed

ecco che lo spazio preso in esame si

ribalta e nello stesso tempo si

schiaccia.

  Comunque il signor Palomar non si

perde d'animo e a ogni momento crede

d'esser riuscito a vedere tutto quel

che poteva vedere dal suo punto

d'osservazione, ma poi salta fuori

sempre qualcosa di cui non aveva

tenuto conto. Se non fosse per questa

sua impazienza di raggiungere un

risultato completo e definitivo della

sua operazione visiva, il guardare le

onde sarebbe per lui un esercizio

molto riposante e potrebbe salvarlo

dalla nevrastenia, dall'infarto e

dall'ulcera gastrica. E forse potrebbe

essere la chiave per padroneggiare la

complessità del mondo riducendola al

meccanismo più semplice.

  Ma ogni tentativo di definire questo

modello deve fare i conti con un'onda

lunga che sopravviene in direzione

perpendicolare ai frangenti e

parallela alla costa, facendo scorrere

una cresta continua e appena

affiorante. Gli sbalzi delle onde che

s'arruffano verso riva non turbano lo

slancio uniforme di questa cresta

compatta che li taglia ad angolo retto

e non si sa dove vada né da dove

venga. Forse è un filo di vento di

levante che muove la superficie del

mare trasversalmente alla spinta

profonda che viene dalle masse d'acqua

del largo, ma quest'onda che nasce

dall'aria raccoglie al passaggio anche

le spinte oblique che nascono

dall'acqua e le devia e raddrizza nel

suo senso e se le porta con sé. Così

va continuando a crescere e a prendere

forza finché lo scontrarsi con le onde

contrarie non la smorza a poco a poco

fino a farla sparire, oppure la torce

fino a confonderla in una delle tante

dinastie d'onde oblique, sbattuta a

riva con loro.

  Appuntare l'attenzione su un aspetto

lo fa balzare in primo piano e

invadere il quadro, come in certi

disegni che basta chiudere gli occhi e

al riaprirli la prospettiva è

cambiata. Adesso in questo incrociarsi

di creste variamente orientate il

disegno complessivo risulta

frammentato in riquadri che affiorano

e svaniscono. S'aggiunga che il

riflusso d'ogni onda ha anch'esso una

sua forza che ostacola le onde che

sopravvengono. E se si concentra

l'attenzione su queste spinte

all'indietro sembra che il vero

movimento sia quello che parte dalla

riva e va verso il largo.

  Forse il vero risultato a cui il

signor Palomar sta per giungere è di

far correre le onde in senso opposto,

di capovolgere il tempo, di scorgere

la vera sostanza del mondo al di là

delle abitudini sensoriali e mentali?

No, egli arriva fino a provare un

leggero senso di capogiro, non oltre.

L'ostinazione che spinge le onde verso

la costa ha partita vinta: di fatto,

si sono parecchio ingrossate. Che il

vento stia per cambiare? Guai se

l'immagine che il signor Palomar è

riuscito minuziosamente a mettere

insieme si sconvolge e frantuma e

disperde. Solo se egli riesce a

tenerne presenti tutti gli aspetti

insieme, può iniziare la seconda fase

dell'operazione: estendere questa

conoscenza all'intero universo.

  Basterebbe non perdere la pazienza,

cosa che non tarda ad avvenire. Il

signor Palomar s'allontana lungo la

spiaggia, coi nervi tesi com'era

arrivato e ancor più insicuro di

tutto.

 

 

             Il seno nudo

  Il signor Palomar cammina lungo una

spiaggia solitaria. Incontra rari

bagnanti. Una giovane donna è distesa

sull'arena prendendo il sole a seno

nudo. Palomar, uomo discreto, volge lo

sguardo all'orizzonte marino. Sa che

in simili circostanze, all'avvicinarsi

d'uno sconosciuto, spesso le donne

s'affrettano a coprirsi, e questo gli

pare non bello: perché è molesto per

la bagnante che prendeva il sole

tranquilla; perché l'uomo che passa si

sente un disturbatore; perché il tabù

della nudità viene implicitamente

confermato; perché le convenzioni

rispettate a metà propagano

insicurezza e incoerenza nel

comportamento anziché libertà e

franchezza.

  Perciò egli, appena vede profilarsi

da lontano la nuvola bronzeo-rosea

d'un torso nudo femminile, s'affretta

ad atteggiare il capo in modo che la

traiettoria dello sguardo resti

sospesa nel vuoto e garantisca del suo

civile rispetto per la frontiera

invisibile che circonda le persone.

  Però, - pensa andando avanti e, non

appena l'orizzonte è sgombro,

riprendendo il libero movimento del

bulbo oculare - io, così facendo,

ostento un rifiuto a vedere, cioè

anch'io finisco per rafforzare la

convenzione che ritiene illecita la

vista del seno, ossia istituisco una

specie di reggipetto mentale sospeso

tra i miei occhi e quel petto che, dal

barbaglio che me ne è giunto sui

confini del mio campo visivo, m'è

parso fresco e piacevole alla vista.

Insomma, il mio non guardare

presuppone che io sto pensando a

quella nudità, me ne preoccupo, e

questo è in fondo ancora un

atteggiamento indiscreto e retrivo.

  Ritornando dalla sua passeggiata,

Palomar ripassa davanti a quella

bagnante, e questa volta tiene lo

sguardo fisso davanti a sé, in modo

che esso sfiori con equanime

uniformità la schiuma delle onde che

si ritraggono, gli scafi delle barche

tirate in secco, il lenzuolo di spugna

steso sull'arena, la ricolma luna di

pelle più chiara con l'alone bruno del

capezzolo, il profilo della costa

nella foschia, grigia contro il cielo.

  Ecco, - riflette, soddisfatto di se

stesso, proseguendo il cammino, - sono

riuscito a far sì che il seno fosse

assorbito completamente dal paesaggio,

e che anche il mio sguardo non pesasse

più che lo sguardo d'un gabbiano o

d'un nasello.

  Ma sarà proprio giusto, fare così? -

riflette ancora, - o non è un

appiattire la persona umana al livello

delle cose, considerarla un oggetto, e

quel che è peggio, considerare oggetto

ciò che nella persona è specifico del

sesso femminile? Non sto forse

perpetuando la vecchia abitudine della

supremazia maschile, incallita con gli

anni in un'insolenza abitudinaria?

  Si volta e ritorna sui suoi passi.

Ora, nel far scorrere il suo sguardo

sulla spiaggia con oggettività

imparziale, fa in modo che, appena il

petto della donna entra nel suo campo

visivo, si noti una discontinuità, uno

scarto, quasi un guizzo. Lo sguardo

avanza fino a sfiorare la pelle tesa,

si ritrae, come apprezzando con un

lieve trasalimento la diversa

consistenza della visione e lo

speciale valore che essa acquista, e

per un momento si tiene a mezz'aria,

descrivendo una curva che accompagna

il rilievo del seno da una certa

distanza, elusivamente ma anche

protettivamente, per poi riprendere il

suo corso come niente fosse stato.

  Così credo che la mia posizione

risulti ben chiara, - pensa Palomar, -

senza malintesi possibili. Però questo

sorvolare dello sguardo non potrebbe

in fin dei conti essere inteso come un

atteggiamento di superiorità, una

sottovalutazione di ciò che un seno è

e significa, un tenerlo in qualche

modo in disparte, in margine o tra

parentesi? Ecco che ancora sto

tornando a relegare il seno nella

penombra in cui l'hanno tenuto secoli

di pudibonderia sessuomaniaca e di

concupiscenza come peccato...

  Una tale interpretazione va contro

alle migliori intenzioni di Palomar,

che pur appartenendo a una generazione

matura, per cui la nudità del petto

femminile s'associava all'idea

d'un'intimità amorosa, tuttavia saluta

con favore questo cambiamento nei

costumi, sia per ciò che esso

significa come riflesso d'una

mentalità più aperta nella società,

sia in quanto una tale vista in

particolare gli riesce gradita. E'

quest'incoraggiamento disinteressato

che egli vorrebbe riuscire a esprimere

nel suo sguardo.

  Fa dietro-front. A passi decisi

muove ancora verso la donna sdraiata

al sole. Ora il suo sguardo, lambendo

volubilmente il paesaggio, si

soffermerà sul seno con uno speciale

riguardo, ma s'affretterà a

coinvolgerlo in uno slancio di

benevolenza e gratitudine per il

tutto, per il sole e il cielo, per i

pini ricurvi e la duna e l'arena e gli

scogli e le nuvole e le alghe, per il

cosmo che ruota intorno a quelle

cuspidi aureolate.

  Questo dovrebbe bastare a

tranquillizzare definitivamente la

bagnante solitaria e a sgombrare il

campo da illazioni fuorvianti. Ma

appena lui torna ad avvicinarsi, ecco

che lei s'alza di scatto, si ricopre,

sbuffa, s'allontana con scrollate

infastidite delle spalle come

sfuggisse alle insistenze moleste d'un

satiro.

  Il peso morto d'una tradizione di

malcostume impedisce d'apprezzare nel

loro giusto merito le intenzioni più

illuminate, conclude amaramente

Palomar.

 

 

          La spada del sole

  Il riflesso sul mare si forma quando

il sole s'abbassa: dall'orizzonte una

macchia abbagliante si spinge fino

alla costa, fatta di tanti luccichii

che ondeggiano; tra luccichio e

luccichio, l'azzurro opaco del mare

incupisce la sua rete. Le barche

bianche controluce si fanno nere,

perdono consistenza ed estensione,

come consumate da quella

picchiettatura risplendente.

  E' l'ora in cui il signor Palomar,

uomo tardivo, fa la sua nuotata

serale. Entra nell'acqua, si stacca

dalla riva, e il riflesso del sole

diventa una spada scintillante

nell'acqua che dall'orizzonte

s'allunga fino a lui. Il signor

Palomar nuota nella spada o per meglio

dire la spada resta sempre davanti a

lui, a ogni sua bracciata si ritrae, e

non si lascia mai raggiungere. Per

tutto dove egli allunga le braccia, il

mare prende il suo opaco colore

serale, che s'estende fino a riva alle

sue spalle.

  Mentre il sole scende verso il

tramonto, il riflesso da

bianco-incandescente si colora d'oro e

di rame. E dovunque il signor Palomar

si sposti, il vertice di quell'aguzzo

triangolo dorato è lui; la spada lo

segue, indicandolo come la lancetta

d'un orologio che ha per perno il

sole.

  "E' un omaggio speciale che il sole

fa a me personalmente", è tentato di

pensare il signor Palomar, o meglio

l'io egocentrico e megalomane che

abita in lui. Ma l'io depressivo o

autolesionista che coabita con l'altro

nello stesso contenitore, obietta:

"Tutti quelli che hanno occhi vedono

il riflesso che li segue; l'illusione

dei sensi e della mente ci tiene

sempre tutti prigionieri". Interviene

un terzo coinquilino, un io più

equanime: "Vuol dire che, comunque

sia, io faccio parte dei soggetti

senzienti e pensanti, capaci di

stabilire un rapporto con i raggi

solari, e di interpretare e valutare

le percezioni e le illusioni".

  Ogni bagnante che a quest'ora nuota

verso ponente vede la striscia di luce

che si dirige verso di lui per

spegnersi poco più in là del punto

dove la sua bracciata si spinge:

ognuno ha un suo riflesso, che solo

per lui ha quella direzione e si

sposta con lui. Ai due lati del

riflesso, l'azzurro dell'acqua è più

cupo. "E' quello il solo dato non

illusorio, comune a tutti, il buio?"

si domanda il signor Palomar. Ma la

spada s'impone ugualmente all'occhio

di ciascuno, non c'è modo di

sfuggirle. "Ciò che abbiamo in comune

è proprio ciò che è dato a ciascuno

come esclusivamente suo?"

  Le tavole a vela scivolano

sull'acqua, tagliando con bordate

oblique il vento di terra che si leva

a quest'ora. Figure erette reggono il

boma a braccia distese come arcieri,

contenendo l'aria che schiocca nella

tela. Quando attraversano il riflesso

ecco che in mezzo all'oro che li

avvolge i colori della vela si

attenuano e il profilo dei corpi

opachi è come entrasse nella notte.

  "Tutto questo avviene non sul mare,

non nel sole, - pensa il nuotatore

Palomar, - ma dentro la mia testa, nei

circuiti tra gli occhi e il cervello.

Sto nuotando nella mia mente; è solo

là che esiste questa spada di luce; e

ciò che mi attira è proprio questo. E'

questo il mio elemento, l'unico che io

possa in qualche modo conoscere".

  Ma anche pensa: "Non posso

raggiungerla, è sempre lì davanti, non

può essere insieme dentro di me e

qualcosa in cui io nuoto, se la vedo

ne resto fuori ed essa resta fuori".

  Le sue bracciate si sono fatte

stracche e incerte: si direbbe che

tutto il suo ragionamento, anziché

aumentargli il piacere di nuotare nel

riflesso, glie lo stia guastando, come

facendogli sentire in esso una

limitazione, o una colpa, o una

condanna. E anche una responsabilità a

cui non può sfuggire: la spada esiste

solo perché lui è lì; se lui se ne

andasse, se tutti i bagnanti e i

natanti tornassero a riva, o solo

voltassero le spalle al sole, dove

finirebbe la spada? Nel mondo che si

disfa, la cosa che lui vorrebbe

salvare è la più fragile: quel ponte

marino tra i suoi occhi e il sole

calante. Il signor Palomar non ha più

voglia di nuotare; ha freddo. Però

continua: ora è obbligato a restare in

acqua fino a che il sole non scompare.

  Allora pensa: "Se io vedo e penso e

nuoto il riflesso, è perché all'altro

estremo c'è il sole che lancia i suoi

raggi. Conta solo l'origine di ciò che

è: qualcosa che il mio sguardo non può

sostenere se non in forma attenuata

come in questo tramonto. Tutto il

resto è riflesso tra i riflessi, me

compreso".

  Passa il fantasma d'una vela;

l'ombra dell'uomo-albero scorre tra le

scaglie luminose. "Se il vento questa

trappola messa insieme con snodi di

plastica, ossa e tendini umani, scotte

di nylon, non si terrebbe su; è il

vento a farne un'imbarcazione che pare

dotata d'una propria finalità e

intenzione; è solo il vento a sapere

dove va il surf e il surfista", egli

pensa. Che sollievo se riuscisse ad

annullare il suo io parziale e

dubbioso nella certezza d'un principio

da cui tutto deriva! Un principio

unico e assoluto da cui prendono

origine gli atti e le forme? Oppure un

certo numero di principŒ distinti,

linee di forza che s'intersecano dando

una forma al mondo quale appare,

unico, istante per istante?

  "...il vento e anche, s'intende, il

mare, la massa d'acqua che sorregge i

solidi galleggianti e fluttuanti, come

me e la tavola", pensa il signor

Palomar facendo il morto.

  Il suo sguardo rovesciato ora

contempla le nuvole vaganti e le

colline nuvolose di boschi. Anche il

suo io è rovesciato negli elementi: il

fuoco celeste, l'aria in corsa,

l'acqua culla e la terra sostegno.

Sarebbe questa la natura? Ma nulla di

ciò che egli vede esiste in natura: il

sole non tramonta, il mare non ha quel

colore, le forme sono quelle che la

luce proietta nella retina. Con

movimenti innaturali degli arti lui

galleggia tra gli spettri; sagome

umane in posizioni innaturali

spostando il loro peso sfruttano non

il vento ma l'astrazione geometrica

d'un angolo tra il vento e

l'inclinazione d'un congegno

artificiale, e così scivolano sulla

liscia pelle del mare. La natura non

esiste?

  L'io nuotante del signor Palomar è

immerso in un mondo scorporato,

intersezioni di campi di forze,

diagrammi vettoriali, fasci di rette

che convergono, divergono, si

rifrangono. Ma dentro di lui resta un

punto in cui tutto esiste in un altro

modo, come un groppo, come un grumo,

come un ingorgo: la sensazione che sei

qui ma potresti non esserci, in un

mondo che potrebbe non esserci ma c'è.

  Un'onda intrusa turba il mare

liscio; un motoscafo irrompe e corre

via spandendo nafta e sobbalzando a

pancia piatta. Il velo di riflessi

unti e cangianti della nafta si

dispiega fluttuando dentro l'acqua;

quella consistenza materiale che al

barbaglio del sole manca, non può

essere messa in dubbio per questa

traccia della presenza fisica

dell'uomo, che cosparge la sua scia di

perdite di carburante, detriti della

combustione, residui non assimilabili,

mescolando e moltiplicando la vita e

la morte intorno a sé.

  "Questo è il mio habitat, - pensa

Palomar, - che non è questione

d'accettare o d'escludere, perché solo

qua in mezzo posso esistere ". Ma se

la sorte della vita sulla terra fosse

già segnata? Se la corsa verso la

morte diventasse più forte d'ogni

possibilità di recupero?

  L'ondata scorre, cavallone

solitario, fino a che non s'abbatte

sulla riva; e dove sembrava esserci

soltanto arena, ghiaia, alghe e

minutissimi gusci di conchiglie, il

ritirarsi dell'acqua ora rivela un

lembo di spiaggia costellato di

barattoli, noccioli, preservativi,

pesci morti, bottiglie di plastica,

zoccoli rotti, siringhe, rami neri di

morchia.

  Sollevato anche lui dall'onda del

motoscafo, travolto dalla marea delle

scorie, il signor Palomar d'improvviso

si sente relitto tra i relitti,

cadavere rotolato sulle

spiagge-immondezzaio dei

continenti-cimiteri. Se nessun occhio

tranne quello vitreo dei morti

s'aprisse più sulla superficie del

globo terracqueo, la spada non

tornerebbe più a brillare.

  A ben pensarci, una tale situazione

non è nuova: già per la durata di

milioni di secoli i raggi del sole si

posavano sull'acqua prima che

esistessero degli occhi capaci di

raccoglierli.

  Il signor Palomar nuota sott'acqua;

emerge; ecco la spada! Un giorno un

occhio uscì dal mare, e la spada, che

già era lì ad attenderlo, poté

finalmente sfoggiare tutta la

snellezza della sua punta acuta e il

suo fulgore scintillante. Erano fatti

l'uno per l'altro, spada e occhio: e

forse non la nascita dell'occhio ha

fatto nascere la spada ma viceversa,

perché la spada non poteva fare a meno

d'un occhio che la guardasse al suo

vertice.

  Il signor Palomar pensa al mondo

senza di lui: quello sterminato di

prima della sua nascita, e quello ben

più oscuro di dopo la sua morte; cerca

d'immaginare il mondo prima degli

occhi, di qualsiasi occhio; e un mondo

che domani per catastrofe o lenta

corrosione resti cieco. Che cosa

avviene (avvenne, avverrà) mai in quel

mondo? Puntuale un dardo di luce parte

dal sole, si riflette sul mare calmo,

scintilla nel tremolio dell'acqua, ed

ecco la materia diventa ricettiva alla

luce, si differenzia in tessuti

viventi, e a un tratto un occhio, una

moltitudine d'occhi fiorisce, o

rifiorisce...

  Ora tutte le tavole del surf sono

state tirate a riva, e anche l'ultimo

bagnante infreddolito - di nome

Palomar - esce dall'acqua. Si è

convinto che la spada esisterà anche

senza di lui: finalmente s'asciuga con

un telo di spugna e torna a casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Palomar in giardino

      Gli amori delle tartarughe

  Ci sono due tartarughe nel patio:

maschio e femmina. Slack! Slack! I

gusci sbattono uno sull'altro. E' la

stagione degli amori. Il signor

Palomar, non visto, spia.

  Il maschio spinge la femmina di

fianco, torno torno al rialzo del

marciapiede. La femmina sembra resista

all'attacco, o almeno oppone

un'immobilità un po' inerte. Il

maschio è più piccolo e attivo; si

direbbe più giovane. Prova

ripetutamente a montarla, da dietro,

ma il dorso del guscio di lei è in

salita e lui scivola.

  Ora dovrebbe essere riuscito a

mettersi nella posizione giusta:

spinge a colpi ritmici, pausati; a

ogni colpo emette un ansito, quasi un

grido. La femmina sta con le zampe

anteriori appiattite sul terreno, il

che la porta a sollevare la parte di

dietro. Il maschio annaspa con le

zampe anteriori sul guscio di lei,

tendendo il collo in avanti,

sporgendosi a bocca aperta. Il

problema con questi gusci è che non

c'è modo d'afferrarsi, e del resto le

zampe non fanno nessuna presa.

  Ora lei gli sfugge, lui la rincorre.

Non che lei sia più veloce né molto

decisa a scappare: lui per trattenerla

le dà dei piccoli morsi a una zampa,

sempre la stessa. Lei non si ribella.

Il maschio, ogni volta che lei si

ferma, tenta di montarla, ma lei fa un

piccolo passo avanti e lui scivola e

batte il membro per terra. E' un

membro abbastanza lungo, fatto a

gancio, con cui si direbbe lui riesca

a raggiungerla anche se lo spessore

dei gusci e la positura malmessa li

separano. Così non si può dire quanti

di questi assalti vadano a buon fine,

quanti falliscano, quanti siano solo

gioco, teatro.

  E' estate, il patio è spoglio,

tranne un gelsomino verde in un

angolo. Il corteggiamento consiste nel

fare tante volte il giro del

praticello, con inseguimenti e fughe e

schermaglie non delle zampe ma dei

gusci, che cozzano con un ticchettio

sordo. E' tra i fusti del gelsomino

che la femmina cerca d'intrufolarsi;

crede - o vuol far credere - che lo fa

per nascondersi; ma in realtà quello è

il modo più sicuro per restare

bloccata dal maschio, immobilizzata

senza scampo. Ora è probabile che lui

sia riuscito a introdurre il membro

come si deve; ma stavolta stanno tutti

e due fermi fermi, silenziosi.

  Quali siano le sensazioni di due

tartarughe che s'accoppiano, il signor

Palomar non riesce a immaginarselo. Le

osserva con un'attenzione fredda, come

se si trattasse di due macchine: due

tartarughe elettroniche programmate

per accoppiarsi. Cos'è l'eros se al

posto della pelle ci sono piastre

d'osso e scaglie di corno? Ma anche

quello che noi chiamiamo eros non è

forse un programma delle nostre

macchine corporee, più complicato

perché la memoria raccoglie i messaggi

d'ogni cellula cutanea, d'ogni

molecola dei nostri tessuti e li

moltiplica combinandoli con gli

impulsi trasmessi dalla vista e con

quelli suscitati dall'immaginazione?

La differenza sta solo nel numero dei

circuiti coinvolti: dai nostri

recettori partono miliardi di fili,

collegati col computer dei sentimenti,

dei condizionamenti, dei legami tra

persona e persona... L'eros è un

programma che si svolge nei grovigli

elettronici della mente, ma la mente è

anche pelle: pelle toccata, vista,

ricordata. E le tartarughe, chiuse nel

loro astuccio insensibile? La penuria

di stimoli sensoriali forse le obbliga

a una vita mentale concentrata,

intensa, le porta a una conoscenza

interiore cristallina... Forse l'eros

delle tartarughe segue leggi

spirituali assolute, mentre noi siamo

prigionieri d'un macchinario che non

sappiamo come funziona, soggetto a

intasarsi, a incepparsi, a scatenarsi

in automatismi senza controllo...

  Capiranno meglio se stesse, le

tartarughe? Dopo una decina di minuti

d'accoppiamento, i due gusci si

staccano. Lei avanti, lui dietro,

riprendono a girare intorno al prato.

Adesso il maschio resta più

distaccato, ogni tanto annaspa con una

zampata sul guscio di lei, le si mette

un po' addosso, ma senza molta

convinzione. Tornano sotto il

gelsomino. Lui le morde un po' una

zampa, sempre nello stesso punto.

 

 

         Il fischio del merlo

  Il signor Palomar ha questa fortuna:

passa l'estate in un posto dove

cantano molti uccelli. Mentre siede su

una sdraio e "lavora" (infatti ha

anche un'altra fortuna: di poter dire

che lavora in luoghi e atteggiamenti

che si direbbero del più assoluto

riposo; o per meglio dire, ha questa

condanna, che si sente obbligato a non

smettere mai di lavorare, anche

sdraiato sotto gli alberi in un

mattino d'agosto), gli uccelli

invisibili tra i rami dispiegano

attorno a lui un repertorio di

manifestazioni sonore le più svariate,

lo avvolgono in uno spazio acustico

irregolare e discontinuo e spigoloso,

ma in cui un equilibrio si stabilisce

tra i vari suoni, nessuno dei quali

s'eleva sugli altri per intensità o

frequenza, e tutti s'intessono in un

ordito omogeneo, tenuto insieme non

dall'armonia ma dalla leggerezza e

trasparenza. Finché nell'ora più calda

la feroce moltitudine degli insetti

non impone il suo dominio assoluto

sulle vibrazioni dell'aria, occupando

sistematicamente le dimensioni del

tempo e dello spazio col martellare

assordante e senza pause delle cicale.

  Il canto degli uccelli occupa una

parte variabile nell'attenzione

auditiva del signor Palomar: ora egli

l'allontana come una componente del

silenzio di fondo, ora si concentra a

distinguervi verso da verso,

raggruppandoli in categorie di

complessità crescente: cinguettii

puntiformi, trilli di due note una

breve una lunga, zirli brevi e

vibrati, chioccolii, cascatelle di

note che vengono giù filate e

s'arrestano, riccioli di modulazioni

che si curvano su se stesse, e così

via fino ai gorgheggi.

  A una classificazione meno generica

il signor Palomar non arriva: non è di

coloro che sanno, ascoltando un verso,

riconoscere a che uccello appartiene.

Sente questa sua ignoranza come una

colpa. Il nuovo sapere che il genere

umano va guadagnando non ripaga del

sapere che si propaga solo per diretta

trasmissione orale e una volta perduto

non si può più riacquistare e

ritrasmettere: nessun libro può

insegnare quello che solo si può

apprendere nella fanciullezza se si

presta orecchio e occhio attenti al

canto e al volo degli uccelli e se si

trova lì qualcuno che puntualmente

sappia dare loro un nome. Al culto

della precisione nomenclatoria e

classificatoria, Palomar aveva

preferito l'inseguimento continuo

d'una precisione insicura nel definire

il modulato, il cangiante, il

composito: cioè l'indefinibile. Ora

egli farebbe la scelta opposta, e

seguendo il filo dei pensieri

risvegliati dal canto degli uccelli la

sua vita gli appare un seguito

d'occasioni mancate.

  Tra tutti i versi degli uccelli si

distacca il fischio del merlo,

inconfondibile da ogni altro. I merli

arrivano sul tardo pomeriggio: sono

due, certo una coppia, forse la stessa

dell'anno passato, di tutti gli anni a

quest'epoca. Ogni pomeriggio, al

sentire un fischio di richiamo, su due

note, come d'una persona che vuole

segnalare il suo arrivo, il signor

Palomar alza la testa per cercare

intorno chi lo chiama; poi si ricorda

che è l'ora dei merli. Non tarda a

scorgerli: camminano sul prato come se

la loro vera vocazione fosse di bipedi

terrestri, e si divertissero a

stabilire analogie con l'uomo.

  Il fischio dei merli ha questo di

speciale: è identico a un fischio

umano, di qualcuno che non sia

particolarmente abile a fischiare, ma

che si trovi ad avere un buon motivo

per fischiare, una volta tanto e per

una volta sola, senza intenzione di

continuare, e lo faccia con un tono

deciso ma modesto e affabile, tale da

assicurarsi la benevolenza di chi

l'ascolta.

  Dopo un po' il fischio è ripetuto

- dallo stesso merlo o dal suo coniu-

ge - ma sempre come fosse la prima

volta che gli viene in mente di

fischiare; se è un dialogo, ogni

battuta arriva dopo una lunga

riflessione. Ma è un dialogo, oppure

ogni merlo fischia per sé e non per

l'altro? E, in un caso o nell'altro,

si tratta di domande e risposte

(all'altro o a se stesso) o di

confermare qualcosa che è sempre la

stessa cosa (la propria presenza,

l'appartenenza alla specie, al sesso,

al territorio)? Forse il valore di

quell'unica parola sta nell'essere

ripetuta da un altro becco fischiante,

nel non essere dimenticata durante

l'intervallo di silenzio.

  Oppure tutto il dialogo consiste nel

dire all'altro "io sto qui", e la

lunghezza delle pause aggiunge alla

frase il significato di un "ancora",

come a dire: "io sto ancora qui, sono

sempre io". E se fosse nella pausa e

non nel fischio il significato del

messaggio? Se fosse nel silenzio che i

merli si parlano? (Il fischio sarebbe

in questo caso solo un segno di

punteggiatura, una formula come "passo

e chiudo"). Un silenzio, in apparenza

uguale a un altro silenzio, potrebbe

esprimere cento intenzioni diverse;

anche un fischio, d'altronde; parlarsi

tacendo, o fischiando, è sempre

possibile; il problema è capirsi.

  Oppure nessuno può capire nessuno:

ogni merlo crede d'aver messo nel

fischio un significato fondamentale

per lui, ma che solo lui intende;

l'altro gli ribatte qualcosa che non

ha nessuna relazione con quello che

lui ha detto; è un dialogo tra sordi,

una conversazione senza capo né coda.

  Ma i dialoghi umani sono forse

qualcosa di diverso? La signora

Palomar è in giardino anche lei, che

innaffia le veroniche. Dice: - Eccoli,

- enunciazione pleonastica (se

sottintende che il marito stia già

guardando i merli) o altrimenti (se

lui non li avesse visti)

incomprensibile, ma comunque intesa a

stabilire la propria priorità

nell'osservazione dei merli (perché

effettivamente è stata lei la prima a

scoprirli e a segnalarne le abitudini

al marito) e a sottolineare

l'immancabilità delle loro

apparizioni, già da lei tante volte

registrate.

  - Ssst, - fa il signor Palomar,

apparentemente per impedire che sua

moglie li spaventi parlando ad alta

voce (raccomandazione inutile perché i

merli marito e moglie sono ormai

abituati alla presenza e alle voci dei

signori Palomar marito e moglie) ma in

realtà per contestare il vantaggio

della moglie dimostrando una

sollecitudine per i merli molto

maggiore di quella di lei.

  Allora la signora Palomar dice: - Da

ieri è di nuovo secca, - intendendo la

terra dell'aiola che sta innaffiando,

comunicazione in sé superflua, ma

intesa a dimostrare, col continuare a

parlare e col cambiare discorso, una

confidenza coi merli molto maggiore e

più disinvolta di quella del marito.

Comunque da queste battute il signor

Palomar ricava un quadro generale di

tranquillità, e ne è grato alla

moglie, perché se lei gli conferma che

per il momento non c'è niente di più

grave di cui preoccuparsi, lui può

restare assorto nel suo lavoro (o

pseudolavoro o iperlavoro). Lascia

passare un minuto e anche lui cerca di

lanciare un messaggio rassicurante,

per informare la moglie che il suo

lavoro (o infralavoro o ultralavoro)

procede come al solito: a questo scopo

egli emette una serie di sbuffi e

brontolii:

- ...per storto... con tutto che... da

capo... sì, col cavolo... -

enunciazioni che tutte insieme

trasmettono anche il messaggio "sono

molto occupato", nel caso che l'ultima

battuta della moglie contenesse anche

un larvato rimprovero del tipo:

"potresti pensarci un po' pure tu a

innaffiare il giardino".

  Presupposto di questi scambi verbali

è l'idea che una perfetta intesa tra

coniugi permetta di capirsi senza star

lì a specificare tutto per filo e per

segno; ma questo principio viene messo

in pratica in modo molto diverso dai

due: la signora Palomar s'esprime con

frasi compiute ma spesso allusive o

sibilline, per mettere alla prova la

prontezza d'associazioni mentali del

marito e la sintonia dei pensieri di

lui con quelli di lei (cosa che non

sempre funziona); il signor Palomar

invece lascia che dalle brume del suo

monologo interiore emergano sparsi

suoni articolati, confidando che ne

risulti se non l'evidenza d'un senso

compiuto, almeno il chiaroscuro d'uno

stato d'animo.

  La signora Palomar invece si rifiuta

di ricevere questi borbottii come un

discorso, e per sottolineare la sua

non partecipazione dice a bassa voce:

- Ssst...! Li spaventi... - ritorcendo

sul marito lo zittio che lui s'era

creduto in diritto d'opporle, e

riconfermando il proprio primato in

quanto ad attenzione per i merli.

  Segnato questo punto a suo

vantaggio, la signora Palomar

s'allontana. I merli becchettano sul

prato e certo considerano i dialoghi

dei coniugi Palomar come l'equivalente

dei propri fischi. Tanto varrebbe che

ci limitassimo a fischiare, egli

pensa. Qui s'apre una prospettiva di

pensieri molto promettente per il

signor Palomar, a cui la discrepanza

tra il comportamento umano e il resto

dell'universo è sempre stata fonte

d'angoscia. Il fischio uguale

dell'uomo e del merlo ecco gli appare

come un ponte gettato sull'abisso.

  Se l'uomo investisse nel fischio

tutto ciò che normalmente affida alla

parola, e se il merlo modulasse nel

fischio tutto il non detto della sua

condizione d'essere naturale, ecco che

sarebbe compiuto il primo passo per

colmare la separazione tra... tra che

cosa e che cosa? Natura e cultura?

Silenzio e parola? Il signor Palomar

spera sempre che il silenzio contenga

qualcosa di più di quello che il

linguaggio può dire. Ma se il

linguaggio fosse davvero il punto

d'arrivo a cui tende tutto ciò che

esiste? O se tutto ciò che esiste

fosse linguaggio, già dal principio

dei tempi? Qui il signor Palomar è

ripreso dall'angoscia.

  Dopo aver ascoltato attentamente il

fischio del merlo, egli prova a

ripeterlo, più fedelmente che può.

Segue un silenzio perplesso, come se

il suo messaggio richiedesse un

attento esame; poi echeggia un fischio

uguale, che il signor Palomar non sa

se sia una risposta a lui, o la prova

che il suo fischio è talmente diverso

che i merli non ne sono affatto

turbati e riprendono il dialogo tra

loro come nulla fosse.

  Continuano a fischiare e a

interrogarsi perplessi, lui e i merli.

 

 

          Il prato infinito

  Intorno alla casa del signor Palomar

c'è un prato. Non è quello un posto

dove naturalmente ci dovrebbe essere

un prato: dunque il prato è un oggetto

artificiale, composto di oggetti

naturali, cioè erbe. Il prato ha come

fine di rappresentare la natura, e

questa rappresentazione avviene

sostituendo alla natura propria del

luogo una natura in sé naturale ma

artificiale in rapporto a quel luogo.

Insomma: costa; il prato richiede

spesa e fatica senza fine: per

seminarlo, innaffiarlo, concimarlo,

disinfestarlo, falciarlo.

  Il prato è costituito di dicondra,

loglietto e trifoglio. Questa la

mescolanza in parti uguali che fu

sparsa sul terreno al momento della

semina. La dicondra, nana e

strisciante, ha presto avuto il

sopravvento: il suo tappeto di

foglioline tonde e morbide dilaga,

gradevole al piede e allo sguardo. Ma

lo spessore del prato lo dànno le

lance affilate del loglietto, se non

sono troppo rade e se non le si lascia

crescere troppo senza dargli una

tagliata. Il trifoglio spunta

irregolarmente, qua due ciuffi, là

niente, laggiù un mare; cresce

rigoglioso finché non s'affloscia,

perché l'elica della foglia pesa in

cima al tenero gambo e lo inarca. La

macchina tagliaprato procede con

tremito assordante alla tonsura; un

soffice odore di fieno fresco inebria

l'aria; l'erba livellata ritrova una

sua ispida infanzia; ma il morso delle

lame svela discontinuità, radure

spelacchiate, macchie gialle.

  Il prato per fare la sua figura

dev'essere una distesa verde uniforme:

risultato innaturale che naturalmente

raggiungono i prati voluti dalla

natura. Qui, osservando punto per

punto, si scopre dove lo zampillo a

mulinello dell'irrigatore non arriva,

dove invece l'acqua batte a getto

continuo e fa marcire le radici, e

dove dell'adeguato innaffiamento

approfittano le erbacce.

  Il signor Palomar sta strappando le

erbacce, accoccolato sul prato. Un

dente-di-leone aderisce al terreno con

un basamento di foglie dentate

fittamente sovrapposte; se si tira il

gambo, questo ti resta in mano mentre

le radici permangono confitte nel

terreno. Occorre con un movimento

ondeggiante della mano impossessarsi

di tutta la pianta e sfilare

delicatamente le barbe dalla terra,

magari tirando su pezzi di zolla e

sparuti fili d'erba del prato, mezzo

soffocati dal vicino invadente. Poi

gettare l'intruso in luogo dove non

possa rifare radici o sparger seme.

Quando si comincia con lo sradicare

una gramigna, subito se ne vede

spuntare un'altra un po' più in là, e

un'altra, e un'altra ancora. In breve,

quel lembo di tappeto erboso che

sembrava richiedere solo pochi

ritocchi, si rivela una giungla senza

legge.

  Non restano che erbacce? Peggio

ancora: le male erbe sono così

fittamente inframmezzate alle buone

che non si può cacciare le mani in

mezzo e tirare. Sembra che una intesa

complice si sia creata fra le erbe di

semina e quelle selvatiche, un

allentamento delle barriere imposte

dalle disparità di nascita, una

tolleranza rassegnata alla

degradazione. Alcune erbe spontanee,

in sé e per sé, non hanno affatto

un'aria malefica o insidiosa. Perché

non ammetterle nel numero delle

appartenenti al prato a pieno diritto,

integrandole alla comunità delle

coltivate? E' questa la strada che

porta a lasciar perdere il "prato

inglese" e a ripiegare sul "prato

rustico", abbandonato a se stesso.

"Prima o poi bisognerà decidersi a

questa scelta", pensa il signor

Palomar, ma gli parrebbe di venir meno

a un punto d'onore. Una cicoria, una

borragine balzano nel suo campo

visivo. Lui le sradica.

  Certo, strappare un'erbaccia qua e

una là non risolve nulla. Bisognerebbe

procedere così, - egli pensa,-

prendere un quadrato di prato, un

metro per un metro, e ripulirlo fin

della più minuta presenza che non sia

trifoglio, loglietto o dicondra. Poi

passare a un altro quadrato. Oppure,

no, fermarsi su un quadrato campione.

Contare quanti fili d'erba ci sono, di

quali specie, quanto fitti e come

distribuiti. In base a questo calcolo

si arriverà a una conoscenza

statistica del prato, stabilita la

quale...

  Ma contare i fili d'erba è inutile,

non s'arriverà mai a saperne il

numero. Un prato non ha confini netti,

c'è un orlo dove l'erba cessa di

crescere ma ancora qualche filo sparso

ne spunta più in là, poi una zolla

verde fitta, poi una striscia più

rada: fanno ancora parte del prato o

no? Altrove il sottobosco entra nel

prato: non si può dire cos'è prato e

cos'è cespuglio. Ma pure là dove non

c'è che erba, non si sa mai a che

punto si può smettere di contare: tra

pianticella e pianticella c'è sempre

un germoglio di fogliolina che affiora

appena dalla terra e ha per radice un

pelo bianco che quasi non si vede; un

minuto fa si poteva trascurarla ma tra

poco dovremo contare anche lei.

Intanto altri due fili che poco fa

sembravano appena un po' giallini ecco

che ora sono definitivamente appassiti

e sarebbero da cancellare dal conto.

Poi ci sono le frazioni di fili

d'erba, troncati a metà, o rasi al

suolo, o lacerati lungo le nervature,

le foglioline che hanno perso un

lobo... I decimali sommati non fanno

un numero intero, restano una minuta

devastazione erbacea, in parte ancora

vivente, in parte già poltiglia,

alimento d'altre piante, humus...

  Il prato è un insieme d'erbe, - così

va impostato il problema, - che

include un sottoinsieme d'erbe

coltivate e un sottoinsieme d'erbe

spontanee dette erbacce;

un'intersezione dei due sottoinsiemi è

costituita dalle erbe nate

spontaneamente ma appartenenti alle

specie coltivate e quindi

indistinguibili da queste. I due

sottoinsiemi a loro volta includono le

varie specie, ognuna delle quali è un

sottoinsieme, o per meglio dire è un

insieme che include il sottoinsieme

dei propri appartenenti che

appartengono pure al prato e il

sottoinsieme degli esterni al prato.

Soffia il vento, volano i semi e i

pollini, le relazioni tra gli insiemi

si sconvolgono...

  Palomar è già passato a un altro

corso di pensieri: è "il prato" ciò

che noi vediamo oppure vediamo un'erba

più un'erba più un'erba...? Quello che

noi diciamo "vedere il prato" è solo

un effetto dei nostri sensi

approssimativi e grossolani; un

insieme esiste solo in quanto formato

da elementi distinti. Non è il caso di

contarli, il numero non importa; quel

che importa è afferrare in un solo

colpo d'occhio le singole pianticelle

una per una, nelle loro particolarità

e differenze. E non solamente vederle:

pensarle. Invece di pensare "prato",

pensare quel gambo con due foglie di

trifoglio, quella foglia lanceolata un

po' ingobbita, quel corimbo sottile...

  Palomar s'è distratto, non strappa

più le erbacce, non pensa più al

prato: pensa all'universo. Sta

provando ad applicare all'universo

tutto quello che ha pensato del prato.

L'universo come cosmo regolare e

ordinato o come proliferazione

caotica. L'universo forse finito ma

innumerabile, instabile nei suoi

confini, che apre entro di sé altri

universi. L'universo, insieme di corpi

celesti, nebulose, pulviscolo, campi

di forze, intersezioni di campi,

insiemi di insiemi...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

       Palomar guarda il cielo

          Luna di pomeriggio

  La luna di pomeriggio nessuno la

guarda, ed è quello il momento in cui

avrebbe più bisogno del nostro

interessamento, dato che la sua

esistenza è ancora in forse. E'

un'ombra biancastra che affiora

dall'azzurro intenso del cielo, carico

di luce solare; chi ci assicura che ce

la farà anche stavolta a prendere

forma e lucentezza? E' così fragile e

pallida e sottile; solo da una parte

comincia ad acquistare un contorno

netto come un arco di falce, e il

resto è ancora tutto imbevuto di

celeste. E' come un'ostia trasparente,

o una pastiglia mezzo dissolta; solo

che qui il cerchio bianco non si sta

disfacendo ma condensando,

aggregandosi a spese delle macchie e

ombre grigiazzurre che non si capisce

se appartengano alla geografia lunare

o siano sbavature del cielo che ancora

intridono il satellite poroso come una

spugna.

  In questa fase il cielo è ancora

qualcosa di molto compatto e concreto

e non si può essere sicuri se è dalla

sua superficie tesa e ininterrotta che

si sta staccando quella forma rotonda

e biancheggiante, d'una consistenza

appena più solida delle nuvole, o se

al contrario si tratta d'una

corrosione del tessuto del fondo, una

smagliatura della cupola, una breccia

che s'apre sul nulla retrostante.

L'incertezza è accentuata

dall'irregolarità della figura che da

una parte sta acquistando rilievo

(dove più le arrivano i raggi del sole

declinante), dall'altra indugia in una

specie di penombra. E siccome il

confine tra le due zone non è netto,

l'effetto che ne risulta non è quello

d'un solido visto in prospettiva ma

piuttosto d'una di quelle figurine

delle lune sui calendari, in cui un

profilo bianco si stacca entro un

cerchietto scuro. Su questo non ci

sarebbe proprio nulla da eccepire, se

si trattasse d'una luna al primo

quarto e non d'una luna piena o quasi.

Tale essa infatti sta rivelandosi, man

mano che il suo contrasto col cielo si

fa più forte e la sua circonferenza si

va disegnando più netta, con appena

qualche ammaccatura sul bordo di

levante.

  Bisogna dire che l'azzurro del cielo

ha virato successivamente verso il

pervinca, verso il viola (i raggi del

sole sono diventati rossi), poi verso

il cenerognolo e il bigio, e ogni

volta il biancore della luna ha

ricevuto una spinta a venir fuori più

deciso, e al suo interno la parte più

luminosa ha guadagnato estensione fino

a coprire tutto il disco. E' come se

le fasi che la luna attraversa in un

mese fossero ripercorse all'interno di

questa luna piena o luna gobba, nelle

ore tra il suo sorgere e il suo

tramontare, con la differenza che la

forma rotonda resta più o meno tutta

in vista. In mezzo al cerchio le

macchie ci sono sempre, anzi i loro

chiaroscuri si fanno più contrastati

per rapporto alla luminosità del

resto, ma ora non c'è dubbio che è la

luna che se li porta addosso come

lividi o ecchimosi, e non si può più

crederli trasparenze del fondale

celeste, strappi nel manto d'un

fantasma di luna senza corpo.

  Piuttosto, ciò che ancora resta

incerto è se questo guadagnare in

evidenza e (diciamolo) splendore sia

dovuto al lento arretrare del cielo

che più s'allontana più sprofonda

nell'oscurità, o se invece è la luna

che sta venendo avanti raccogliendo la

luce prima dispersa intorno e

privandone il cielo e concentrandola

tutta nella tonda bocca del suo

imbuto.

  E soprattutto questi mutamenti non

devono far dimenticare che nel

frattempo il satellite è andato

spostandosi nel cielo procedendo verso

ponente e verso l'alto. La luna è il

più mutevole dei corpi dell'universo

visibile, e il più regolare nelle sue

complicate abitudini: non manca mai

agli appuntamenti e puoi sempre

aspettarla al varco, ma se la lasci in

un posto la ritrovi sempre altrove, e

se ricordi la sua faccia voltata in un

certo modo, ecco che ha già cambiato

posa, poco o molto. Comunque, a

seguirla passo passo, non t'accorgi

che impercettibilmente ti sta

sfuggendo. Solo le nuvole intervengono

a creare l'illusione d'una corsa e

d'una metamorfosi rapide, o meglio, a

dare una vistosa evidenza a ciò che

altrimenti sfuggirebbe allo sguardo.

  Corre la nuvola, da grigia si fa

lattiginosa e lucida, il cielo dietro

è diventato nero, è notte, le stelle

si sono accese, la luna è un grande

specchio abbagliante che vola. Chi

riconoscerebbe in lei quella di

qualche ora fa? Ora è un lago di

lucentezza che sprizza raggi

tutt'intorno e trabocca nel buio un

alone di freddo argento e inonda di

luce bianca le strade dei nottambuli.

  Non c'è dubbio che quella che ora

comincia è una splendida notte di

plenilunio d'inverno. A questo punto,

assicuratosi che la luna non ha più

bisogno di lui, il signor Palomar

torna a casa.

 

 

         L'occhio e i pianeti

   Il signor Palomar, avendo appreso

che quest'anno per tutto il mese

d'aprile i tre pianeti "esterni"

visibili a occhio nudo (anche da lui,

che è miope e astigmatico) sono tutti

e tre "in opposizione", dunque

visibili insieme per l'intera notte,

s'affretta a uscire sul terrazzo.

  Il cielo è chiaro per la luna piena.

Marte, pur essendo vicino al grande

specchio lunare inondato di luce

bianca, si fa avanti imperioso col suo

fulgore ostinato, col suo giallo

concentrato e denso, diverso da tutti

gli altri gialli del firmamento, al

punto che si finisce per convenire di

chiamarlo rosso, e nei momenti

ispirati per vederlo rosso davvero.

  Scendendo con lo sguardo, seguitando

verso levante un arco immaginario che

dovrebbe congiungere Regolo a Spica

(ma Spica quasi non si vede),

s'incontra ben distinto Saturno, dalla

luce bianca e freddina, e più in giù

ancora ecco Giove, nel momento del suo

massimo splendore, d'un giallo

vigoroso che dà sul verde. Le stelle

intorno sono tutte impallidite, tranne

Arturo che brilla con aria di sfida un

po' più in alto verso oriente.

  Per approfittare di più della tripla

opposizione planetaria, è

indispensabile procurarsi un

telescopio. Il signor Palomar, forse

perché porta lo stesso nome d'un

famoso osservatorio, gode di qualche

amicizia tra gli astronomi, e gli

viene concesso d'avvicinare il naso

all'oculare d'un telescopio da 15 cm,

cioè piuttosto piccolo per la ricerca

scientifica, ma che, paragonato ai

suoi occhiali, fa già una bella

differenza.

  Per esempio, Marte al telescopio si

rivela un pianeta più perplesso di

quanto non sembri a occhio nudo: pare

abbia tante cose da comunicare di cui

si riesce a mettere a fuoco solo una

piccola parte, come in un discorso

farfugliato e tossicchiante. Un alone

scarlatto sporge intorno all'orlo; si

può cercare di rincalzarlo regolando

la vite, per far risaltare la crostina

di ghiaccio del polo inferiore;

macchie affiorano e spariscono sulla

superficie come nuvole o squarci tra

le nuvole; una si stabilizza in forma

e posizione d'Australia, e il signor

Palomar si convince che più distinta

vede quell'Australia più l'obiettivo è

a fuoco, ma nello stesso tempo

s'accorge che sta perdendo altre ombre

di cose che gli sembrava di vedere o

che si sentiva tenuto a vedere.

  Insomma gli pare che se Marte è quel

pianeta sul quale da Schiapparelli in

poi se ne sono dette tante, causando

alternative d'illusioni e delusioni,

ciò coincida con la difficoltà di

stabilire un rapporto con lui, come

con una persona dal carattere

difficile. (A meno che la difficoltà

di carattere non sia tutta dalla parte

del signor Palomar: invano egli cerca

di sfuggire alla soggettività

rifugiandosi tra i corpi celesti).

  Tutto il contrario è il rapporto che

egli stabilisce con Saturno, il

pianeta che più dà emozione a chi lo

guarda attraverso un telescopio:

eccolo nitidissimo, bianchissimo,

esatti i contorni della sfera e

dell'anello; una leggera rigatura di

paralleli zebra la sfera; una

circonferenza più scura separa il

bordo dell'anello; questo telescopio

non capta quasi altri dettagli e

accentua l'astrazione geometrica

dell'oggetto; il senso d'una

lontananza estrema anziché attenuarsi

risalta più che a occhio nudo.

  Che in cielo stia ruotando un

oggetto così diverso da tutti gli

altri, una forma che raggiunge il

massimo di stranezza col massimo di

semplicità e di regolarità e

d'armonia, è un fatto che rallegra la

vita e il pensiero.

  "Se avessero potuto vederlo come ora

lo vedo io, - pensa il signor Palomar,

- gli antichi avrebbero creduto d'aver

spinto il loro sguardo nel cielo delle

idee di Platone, o nello spazio

immateriale dei postulati d'Euclide;

invece quest'immagine, per chissà

quale disguido, arriva a me che temo

sia troppo bella per essere vera,

troppo accetta al mio universo

immaginario per appartenere al mondo

reale. Ma forse è proprio questa

diffidenza verso i nostri sensi che ci

impedisce di sentirci a nostro agio

nell'universo. Forse la prima regola

che devo pormi è questa: attenermi a

ciò che vedo".

  Ora gli sembra che l'anello oscilli

leggermente, o il pianeta dentro

l'anello, e l'uno e l'altro ruotino su

se stessi; in realtà è la testa del

signor Palomar che oscilla, obbligato

com'egli è a torcere il collo per

infilare lo sguardo nell'oculare del

telescopio; ma si guarda bene dallo

smentire a se stesso quest'illusione

che coincide con la sua aspettativa

così come con la verità naturale.

  Saturno è veramente così. Dopo la

spedizione del "Voyager 2" il signor

Palomar ha seguito tutto ciò che s'è

scritto degli anelli: che sono fatti

di particelle microscopiche; che sono

fatti di scogli di ghiaccio separati

da abissi; che le divisioni tra gli

anelli sono solchi in cui ruotano i

satelliti spazzando la materia e

addensandola ai lati, come cani da

pastore che corrono intorno al gregge

per tenerlo compatto; ha seguito la

scoperta d'anelli intrecciati che poi

si sono risolti in cerchi semplici

molto più sottili; e la scoperta di

striature opache disposte come raggi

della ruota, poi identificate in nubi

gelide. Ma le nuove notizie non

smentiscono questa figura essenziale,

non diversa da quella che per primo

vide Gian Domenico Cassini nel 1676,

scoprendo la divisione tra gli anelli

che porta il suo nome.

  Per l'occasione è naturale che una

persona diligente come il signor

Palomar si sia documentata su

enciclopedie e manuali. Ora Saturno,

oggetto sempre nuovo, si presenta al

suo sguardo rinnovando la meraviglia

della prima scoperta, e risveglia il

rammarico che Galileo col suo sfocato

canocchiale non sia arrivato a farsene

che un'idea confusa, di corpo triplice

o di sfera con due anse, e quando già

era vicino a capire com'era fatto la

vista gli venne meno e tutto sprofondò

nel buio.

  Fissare troppo a lungo un corpo

luminoso stanca la vista; il signor

Palomar chiude gli occhi; passa a

Giove.

  Nella sua mole maestosa ma non

grave, Giove ostenta due strisce

equatoriali come una sciarpa guarnita

di ricami intrecciati, d'un verde

cilestrino. Effetti di tempeste

atmosferiche immani si traducono in un

disegno ordinato e calmo, d'elaborata

compostezza. Ma il vero sfarzo di

questo pianeta lussuoso sono i suoi

sfavillanti satelliti, ora in vista

tutti e quattro lungo una linea

obliqua, come uno scettro splendente

di gioielli.

  Scoperti da Galileo e da lui

chiamati Medicea sidera, "astri dei

Medici", ribattezzati poco dopo con

nomi ovidiani - Io, Europa, Ganimede,

Calisto - da un astronomo olandese, i

pianetini di Giove sembrano irradiare

un ultimo bagliore di Rinascimento

neoplatonico, come ignari che l'ordine

impassibile delle sfere celesti si è

dissolto, proprio per opera del loro

scopritore.

  Un sogno di classicità avvolge

Giove; fissandolo nel telescopio il

signor Palomar resta in attesa d'una

trasfigurazione olimpica. Ma non

riesce a mantenere nitida l'immagine:

deve chiudere per un momento le

palpebre, lasciare che la pupilla

abbagliata ritrovi la percezione

precisa dei contorni, dei colori,

delle ombre, ma anche lasciare che

l'immaginazione si spogli dei panni

non suoi, rinunci a sfoggiare un

sapere libresco.

  Se è giusto che l'immaginazione

venga in soccorso alla debolezza della

vista, deve essere istantanea e

diretta come lo sguardo che l'accende.

Qual era la prima similitudine che gli

era venuta in mente e che aveva

scacciato perché incongrua? Aveva

visto il pianeta ondeggiare coi

satelliti in fila come bollicine

d'aria che s'alzano dalle branchie

d'un tondo pesce degli abissi,

luminescente e striato...

 

  La notte dopo, il signor Palomar

torna sul suo terrazzo, a rivedere i

pianeti a occhio nudo: la grande

differenza è che qui è obbligato a

tener conto delle proporzioni tra il

pianeta, il resto del firmamento

sparso nello spazio buio da tutti i

lati, e lui che guarda, cosa che non

succede se il rapporto è tra l'oggetto

separato pianeta messo a fuoco dalla

lente e lui soggetto, in un illusorio

faccia a faccia. Nello stesso tempo

egli ricorda di ciascun pianeta

l'immagine dettagliata vista ieri

sera, e cerca d'inserirla in quella

minuscola macchia di luce che perfora

il cielo. Così spera d'essersi

appropriato veramente del pianeta, o

almeno di quanto d'un pianeta può

entrare dentro un occhio.

    La contemplazione delle stelle

  Quando c'è una bella notte stellata,

il signor Palomar dice: - Devo andare

a guardare le stelle -. Dice proprio:

- Devo, - perché odia gli sprechi e

pensa che non sia giusto sprecare

tutta quella quantità di stelle che

gli viene messa a disposizione. Dice

"Devo" anche perché non ha molta

pratica di come si guardano le stelle,

e questo semplice atto gli costa

sempre un certo sforzo.

  La prima difficoltà è quella di

trovare un posto dal quale il suo

sguardo possa spaziare per tutta la

cupola del cielo senza ostacoli e

senza l'invadenza dell'illuminazione

elettrica: per esempio una spiaggia

marina solitaria su una costa molto

bassa.

  Altra condizione necessaria è il

portarsi dietro una mappa astronomica,

senza la quale non saprebbe cosa sta

guardando; ma da una volta all'altra

egli dimentica come si fa a orientarla

e deve prima rimettersi a studiarla

per mezz'ora. Per decifrare la mappa

al buio deve portarsi anche una

lampadina tascabile. I frequenti

confronti tra il cielo e la mappa lo

obbligano ad accendere e spegnere la

lampadina, e in questi passaggi dalla

luce al buio egli resta quasi accecato

e deve riaggiustare la sua vista ogni

volta.

  Se il signor Palomar facesse uso

d'un telescopio le cose sarebbero più

complicate sotto certi aspetti e

semplificate sotto altri; ma, ora come

ora, l'esperienza del cielo che

interessa a lui è quella a occhio

nudo, come gli antichi navigatori e i

pastori erranti. Occhio nudo per lui

che è miope significa occhiali; e

siccome per leggere la mappa gli

occhiali deve toglierseli, le

operazioni si complicano con questo

alzare e abbassare degli occhiali

sulla fronte e comportano l'attesa di

alcuni secondi prima che il suo

cristallino rimetta a fuoco le stelle

vere o quelle scritte. Sulla carta i

nomi delle stelle sono scritti in nero

su sfondo blu e bisogna accostare la

lampadina accesa proprio addosso al

foglio per scorgerli. Quando si alza

lo sguardo al cielo lo si vede nero,

cosparso di vaghi chiarori; solo a

poco a poco le stelle si fissano e

dispongono in disegni precisi, e più

si guarda più se ne vedono affiorare.

  Si aggiunga che le mappe celesti che

lui ha bisogno di consultare sono due,

anzi quattro: una molto sintetica del

cielo in quel mese, che presenta

separatamente la mezza volta sud e la

mezza volta nord; e una di tutto il

firmamento, molto più dettagliata, che

mostra in una lunga striscia le

costellazioni di tutto l'anno per la

parte mediana del cielo intorno

all'orizzonte, mentre quelle della

calotta intorno alla Stella Polare

sono comprese in un'annessa mappa

circolare. Insomma il localizzare una

stella comporta il confronto delle

varie mappe e della volta celeste, con

tutti gli atti relativi: levare e

mettere gli occhiali, accendere e

spegnere la lampadina, dispiegare e

ripiegare la mappa grande, perdere e

ritrovare i punti di riferimento.

  Dall'ultima volta in cui il signor

Palomar ha guardato le stelle sono

passate settimane o mesi; il cielo è

tutto cambiato; la Grande Orsa (è

agosto) si distende quasi ad

accucciarsi sulle chiome degli alberi

a nord-ovest; Arturo cala a picco sul

profilo della collina trascinando

tutto l'aquilone di Boote; esattamente

a ovest è Vega, alta e solitaria; se

Vega è quella, questa sopra il mare è

Altair e lassù è Deneb che manda un

freddo raggio dallo zenit.

  Stanotte il cielo sembra molto più

affollato di qualsiasi mappa; le

configurazioni schematiche nella

realtà risultano più complicate e meno

nette; ogni grappolo potrebbe

contenere quel triangolo o quella

linea spezzata che stai cercando; e

ogni volta che rialzi gli occhi su una

costellazione ti sembra un po'

diversa.

  Per riconoscere una costellazione,

la prova decisiva è vedere come

risponde quando la si chiama. Più

convincente del collimare di distanze

e configurazioni con quelle segnate

sulla mappa, è la risposta che il

punto luminoso dà al nome con cui è

stato chiamato, la prontezza a

identificarsi con quel suono

diventando una cosa sola. I nomi delle

stelle per noi orfani d'ogni mitologia

sembrano incongrui e arbitrari; eppure

mai potresti considerarli

intercambiabili. Quando il nome che il

signor Palomar ha trovato è quello

giusto, se ne accorge subito, perché

esso dà alla stella una necessità e

un'evidenza che prima non aveva; se

invece è un nome sbagliato, la stella

lo perde dopo pochi secondi, come

scrollandoselo di dosso, e non si sa

più dov'era e chi era.

  A varie riprese il signor Palomar

decide che la Chioma di Berenice

(costellazione da lui amata) è questo

o quello sciame luminoso dalle parti

di Ofiuco: ma non torna a sentire il

palpito altre volte provato al

riconoscere quell'oggetto cos¡

sontuoso e pur cos¡ leggero. Solo in

seguito si rende conto che se non la

trova è perché la Chioma di Berenice

di questa stagione non si vede.

  Per larga parte il cielo è

attraversato da striature e macchie

chiare; la Via Lattea prende d'agosto

una consistenza densa e si direbbe che

trabocchi dal suo alveo; il chiaro e

lo scuro sono cos¡ mescolati da

impedire l'effetto prospettico d'un

abisso nero sulla cui vuota lontananza

campeggiano, ben in rilievo, le

stelle; tutto resta sullo stesso

piano: scintillio e nube argentea e

tenebre.

  E' questa l'esatta geometria degli

spazi siderei, cui tante volte il

signor Palomar ha sentito il bisogno

di rivolgersi, per staccarsi dalla

Terra, luogo delle complicazioni

superflue e delle approssimazioni

confuse? Trovandosi davvero in

presenza del cielo stellato, tutto

sembra che gli sfugga. Anche ciò a cui

lui si credeva più sensibile, la

piccolezza del nostro mondo rispetto

alle distanze sconfinate, non risulta

direttamente. Il firmamento è qualcosa

che sta lassù, che si vede che c'è, ma

da cui non si può ricavare nessuna

idea di dimensioni o di distanza.

  Se i corpi luminosi sono carichi

d'incertezza, non resta che affidarsi

al buio, alle regioni deserte del

cielo. Cosa può esserci di più stabile

del nulla? Eppure anche del nulla non

si può essere sicuri al cento per

cento. Palomar dove vede una radura

del firmamento, una breccia vuota e

nera, vi fissa lo sguardo come

proiettandosi in essa; ed ecco che

anche lì in mezzo prende forma un

qualche granello chiaro o macchiolina

o lentiggine; ma lui non arriva a

esser sicuro se ci sono davvero o se

gli sembra solo di vederli. Forse è un

chiarore come se ne vedono ruotare

tenendo gli occhi chiusi (il cielo

buio è come il rovescio delle palpebre

solcato da fosfèni); forse è un

riflesso dei suoi occhiali; ma

potrebbe anche essere una stella

sconosciuta che emerge dalle

profondità più remote.

  Questa osservazione delle stelle

trasmette un sapere instabile e

contraddittorio, - pensa Palomar, -

tutto il contrario di quello che

sapevano trarne gli antichi. Sarà

perché il suo rapporto col cielo è

intermittente e concitato, anziché una

serena abitudine? Se lui si obbligasse

a contemplare le costellazioni notte

per notte e anno per anno, e a

seguirne i corsi e i ricorsi lungo i

curvi binari della volta oscura, forse

alla fine conquisterebbe anche lui la

nozione d'un tempo continuo e

immutabile, separato dal tempo labile

e frammentario degli accadimenti

terrestri. Ma basterebbe l'attenzione

alle rivoluzioni celesti a marcare in

lui questa impronta? o non

occorrerebbe soprattutto una

rivoluzione interiore, quale egli può

supporre solo in teoria, senza

riuscirne a immaginare gli effetti

sensibili sulle sue emozioni e sui

ritmi della mente?

  Della conoscenza mitica degli astri

egli capta solo qualche stanco

barlume; della conoscenza scientifica,

gli echi divulgati dai giornali; di

ciò che sa diffida; ciò che ignora

tiene il suo animo sospeso.

Soverchiato, insicuro, s'innervosisce

sulle mappe celesti come su orari

ferroviari scartabellati in cerca

d'una coincidenza.

  Ecco una freccia splendente che

solca il cielo. Una meteora? Sono

queste le notti in cui è più frequente

scorgere delle stelle cadenti. Però

potrebbe essere benissimo un aereo di

linea illuminato. Lo sguardo del

signor Palomar si tiene vigile,

disponibile, sciolto da ogni certezza.

  Sta da mezz'ora sulla spiaggia buia,

seduto su una sdraio, contorcendosi

verso sud o verso nord, ogni tanto

accendendo la lampadina e avvicinando

al naso le carte che tiene dispiegate

sui ginocchi; poi a collo riverso

ricomincia l'esplorazione partendo

dalla Stella Polare.

  Delle ombre silenziose si stanno

muovendo sulla sabbia; una coppia

d'innamorati si stacca dalla duna, un

pescatore notturno, un doganiere, un

barcaiolo. Il signor Palomar sente un

sussurro. Si guarda intorno: a pochi

passi da lui s'è formata una piccola

folla che sta sorvegliando le sue

mosse come le convulsioni d'un

demente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    Palomar in città

 

         Palomar sul terrazzo

             Dal terrazzo

  - Sciò! Sciò! - Il signor Palomar

corre sul terrazzo per far scappare i

piccioni che mangiano le foglie della

gazania, crivellano di beccate le

piante grasse, s'aggrappano con le

zampe alla cascata di campanule,

spiluccano le more, becchettano

fogliolina a fogliolina il prezzemolo

piantato nella cassetta vicino alla

cucina, scavano e razzolano nei vasi

rovesciando fuori la terra e mettendo

a nudo le radici, come se il solo fine

dei loro voli fosse la devastazione.

Ai colombi il cui volo rallegrava un

tempo le piazze è succeduta una

progenie degenerata e sozza e infetta,

né domestica né selvatica ma integrata

nelle istituzioni pubbliche, e come

tale inestinguibile. Il cielo della

città di Roma è da tempo caduto in

balia della sovrapopolazione di questi

lumpen-pennuti, che rendono la vita

difficile a ogni altra specie

d'uccelli intorno e opprimono il già

libero e vario regno dell'aria con le

loro monotone spennacchiate livree

grigio-piombo.

  Stretta tra le orde sotterranee dei

topi e il greve volo dei piccioni,

l'antica città si lascia corrodere dal

basso e dall'alto senza opporre più

resistenza che altravolta alle

invasioni dei barbari, come vi

riconoscesse non l'assalto di nemici

esterni ma gli impulsi più oscuri e

congeniti della propria essenza

interiore.

  La città ha pure un'altra anima -

una tra le tante - che vive

dell'accordo tra vecchie pietre e

vegetazione sempre nuova, nel

dividersi i favori del sole.

Secondando questa buona disposizione

ambientale o genius loci, il terrazzo

della famiglia Palomar, isola segreta

sopra i tetti, sogna di concentrare

sotto la sua pergola il lussureggiare

dei giardini di Babilonia.

  Il rigoglio del terrazzo risponde al

desiderio d'ogni membro della

famiglia, ma mentre alla signora

Palomar è venuto naturale di

trasferire sulle piante la sua

attenzione alle cose singole, scelte e

fatte proprie per identificazione

interiore e cos¡ entrate a comporre un

insieme dalle multiple variazioni, una

collezione emblematica, questa

dimensione dello spirito fa difetto

agli altri familiari; alla figlia

perché la giovinezza non può né deve

fissarsi sul qui ma solo sul più in

là; al marito perché è arrivato troppo

tardi a liberarsi dalle impazienze

giovanili e a capire (solo in teoria)

che l'unica salvezza è nell'applicarsi

alle cose che ci sono.

  Le preoccupazioni del coltivatore

per cui ciò che conta è quella data

pianta, quel dato pezzo di terreno

esposto al sole dalla tale ora alla

tale ora, quella data malattia delle

foglie che va combattuta in tempo con

quel dato trattamento sono estranee

alla mente modellata sui procedimenti

dell'industria, cioè portata a

decidere sulle impostazioni generali e

sui prototipi. Quando Palomar s'era

accorto di quanto approssimativi e

votati all'errore sono i criteri di

quel mondo dove credeva di trovare

precisione e norma universale, era

tornato lentamente a costruirsi un

rapporto col mondo limitandolo

all'osservazione delle forme visibili;

ma ormai lui era fatto com'era fatto:

la sua adesione alle cose restava

quella intermittente e labile delle

persone che sembrano sempre intente a

pensare un'altra cosa ma quest'altra

cosa non c'è. Alla prosperità del

terrazzo egli contribuisce correndo

ogni tanto a spaventare i piccioni, -

Sciò! Sciò! -, risvegliando in sé il

sentimento atavico della difesa del

territorio.

  Se sulla terrazza si posano uccelli

diversi dai piccioni, il signor

Palomar anziché cacciarli dà loro il

benvenuto, chiude un occhio su

eventuali guasti prodotti dai loro

becchi, li considera messaggeri di

divinità amiche. Ma queste apparizioni

sono rare: una pattuglia di corvi

qualche volta s'avvicina punteggiando

il cielo di macchie nere, e propagando

(anche il linguaggio degli dèi cambia

coi secoli) un senso di vita e

d'allegria. Poi qualche merlo, gentile

e arguto; una volta un pettirosso; e i

passeri nel solito ruolo di passanti

anonimi. Altre presenze di pennuti

sulla città si lasciano avvistare da

più lontano: le squadriglie dei

migratori, in autunno; e le acrobazie,

d'estate, di rondoni e balestrucci.

Ogni tanto dei gabbiani bianchi,

remando l'aria con le lunghe ali, si

spingono fin sopra il mare asciutto

delle tegole, forse sperduti risalendo

dalla foce le anse del fiume, forse

intenti a un rito nuziale, e il loro

grido marino stride tra i rumori

cittadini.

  La terrazza è a due livelli:

un'altana o belvedere sovrasta la

baraonda dei tetti su cui il signor

Palomar fa scorrere uno sguardo da

uccello. Cerca di pensare il mondo

com'è visto dai volatili; a differenza

di lui gli uccelli hanno il vuoto che

s'apre sotto di loro, ma forse non

guardano mai in giù, vedono solo ai

lati, librandosi obliquamente sulle

ali, e il loro sguardo, come il suo,

dovunque si diriga non incontra altro

che tetti più alti o più bassi,

costruzioni più o meno elevate ma cos¡

fitte da non permettergli d'abbassarsi

più di tanto. Che là sotto, incassate,

esistano delle vie e delle piazze, che

il vero suolo sia quello a livello del

suolo, lui lo sa in base ad altre

esperienze; ora come ora, da quel che

vede di quassù, non potrebbe

sospettarlo.

  La forma vera della città è in

questo sali e scendi di tetti, tegole

vecchie e nuove, coppi ed embrici,

comignoli esili o tarchiati, pergole

di cannucce e tettoie d'eternit

ondulata, ringhiere, balaustre,

pilastrini che reggono vasi, serbatoi

d'acqua in lamiera, abbaini, lucernari

di vetro, e su ogni cosa s'innalza

l'alberatura delle antenne televisive,

dritte o storte, smaltate o

arrugginite, in modelli di generazioni

successive, variamente ramificate e

cornute e schermate, ma tutte magre

come scheletri e inquietanti come

totem. Separati da golfi di vuoto

irregolari e frastagliati, si

fronteggiano terrazzi proletari con

corde per i panni stesi e pomodori

piantati in catini di zinco; terrazzi

residenziali con spalliere di

rampicanti su tralicci di legno,

mobili da giardino in ghisa verniciata

di bianco, tendoni arrotolabili;

campanili con la loggia campanaria

scampanante; frontoni di palazzi

pubblici di fronte e di profilo;

attici e superattici, sopraelevamenti

abusivi e impunibili; impalcature in

tubi metallici di costruzioni in corso

o rimaste a mezzo; finestroni con

tendaggi e finestrini di gabinetti;

muri color ocra e color siena; muri

color muffa dalle cui crepe cespi

d'erba riversano il loro pendulo

fogliame; colonne d'ascensori; torri

con bifore e con trifore; guglie di

chiese con madonne; statue di cavalli

e quadrighe; magioni decadute a

tuguri, tuguri ristrutturati a

gar‡onnières; e cupole che tondeggiano

sul cielo in ogni direzione e a ogni

distanza come a confermare l'essenza

femminile, giunonica della città:

cupole bianche o rosa o viola a

seconda dell'ora e della luce, venate

di nervature, culminanti in lanterne

sormontate da altre cupole più

piccole.

  Nulla di tutto questo può essere

visto da chi muove i suoi piedi o le

sue ruote sui selciati della città. E,

inversamente, di quassù si ha

l'impressione che la vera crosta

terrestre sia questa, ineguale ma

compatta, anche se solcata da fratture

non si sa quanto profonde, crepacci o

pozzi o crateri, i cui orli in

prospettiva appaiono ravvicinati come

scaglie d'una pigna, e non viene

neppure da domandarsi cosa nascondano

nel loro fondo, perché già tanta e

tanto ricca e varia è la vista in

superficie che basta e avanza a

saturare la mente d'informazioni e di

significati.

  Cos¡ ragionano gli uccelli, o almeno

cos¡ ragiona, immaginandosi uccello,

il signor Palomar. "Solo dopo aver

conosciuto la superficie delle cose, -

conclude, - ci si può spingere a

cercare quel che c'è sotto. Ma la

superficie delle cose è inesauribile".

 

 

          La pancia del geco

  Sul terrazzo, come tutte le estati,

è tornato il geco. Un eccezionale

punto d'osservazione permette al

signor Palomar di vederlo non di

schiena, come da sempre siamo abituati

a vedere gechi, ramarri e lucertole,

ma di pancia. Nella stanza di

soggiorno di casa Palomar c'è una

piccola finestra-vetrina che s'apre

sul terrazzo; sui ripiani di questa

vetrina è allineata una collezione di

vasi Art-Nouveau; la sera una

lampadina da 75 watt illumina gli

oggetti; una pianta di plumbago dal

muro del terrazzo fa penzolare i suoi

rami celesti sul vetro esterno; ogni

sera, appena s'accende la luce, il

geco che abita sotto le foglie su quel

muro, si sposta sul vetro, nel punto

dove splende la lampadina, e resta

immobile come lucertola al sole.

Volano i moscerini anch'essi attratti

dalla luce; il rettile, quando un

moscerino gli capita a tiro, lo

inghiotte.

  Il signor Palomar e la signora

Palomar finiscono ogni sera per

spostare le loro poltrone dalla

televisione e sistemarle accanto alla

vetrina; dall'interno della stanza

contemplano la sagoma biancastra del

rettile sullo sfondo buio. La scelta

tra televisione e geco non avviene

sempre senza incertezze; i due

spettacoli hanno ognuno delle

informazioni da dare che l'altro non

dà: la televisione si muove per i

continenti raccogliendo impulsi

luminosi che descrivono la faccia

visibile delle cose; il geco invece

rappresenta la concentrazione immobile

e l'aspetto nascosto, il rovescio di

ciò che si mostra alla vista.

  La cosa più straordinaria sono le

zampe, vere e proprie mani dalle dita

morbide, tutte polpastrelli, che

premute contro il vetro vi aderiscono

con le loro minuscole ventose: le

cinque dita s'allargano come petali di

fiorellini in un disegno infantile, e

quando una zampa si muove, si

raccolgono come un fiore che si

chiude, per tornare poi a distendersi

e a schiacciarsi contro il vetro,

facendo apparire delle striature

minutissime, simili a quelle delle

impronte digitali. Insieme delicate e

forti, queste mani paiono contenere

un'intelligenza potenziale, tale che

basterebbe esse potessero liberarsi

dal compito di restare lì appiccicate

alla superficie verticale per

acquistare le doti delle mani umane,

che si dice siano divenute abili da

quando non ebbero più da appendersi ai

rami o da premere il suolo.

  Le zampe ripiegate sembrano, più che

tutte ginocchio, tutte gomito,

molleggiate a sollevare il corpo. La

coda aderisce al vetro solo con una

striscia centrale, dove prendono

origine gli anelli che la fasciano da

una parte all'altra e ne fanno uno

strumento robusto e ben difeso; il più

del tempo posata torpida e neghittosa,

pare non abbia altro talento o

ambizione che di sostegno sussidiario

(nulla a che vedere con l'agilità

calligrafica delle code delle

lucertole), ma all'occorrenza si

dimostra reattiva e ben articolata e

anche espressiva.

  Del capo sono visibili la gola

capace e vibrante, e ai lati gli occhi

sporgenti e senza palpebra. La gola è

una superficie di sacco floscio che

s'estende dalla punta del mento dura e

tutta scaglie come quella d'un

caimano, al ventre bianco che dove

preme sul vetro presenta anch'esso una

picchiettatura granulosa, forse

adesiva.

  Quando un moscerino passa vicino

alla gola del geco, la lingua scatta e

inghiotte, fulminea e duttile e

prensile, priva di forma e capace

d'assumere ogni forma. Comunque,

Palomar non è mai sicuro se l'ha vista

o non l'ha vista; ciò che certamente

vede, adesso, è il moscerino dentro la

gola del rettile: il ventre premuto

contro il vetro illuminato è

trasparente come ai raggi X; si può

seguire l'ombra della preda nel suo

tragitto attraverso le viscere che

l'assorbono.

  Se ogni materia fosse trasparente,

il suolo che ci sostiene, l'involucro

che fascia i nostri corpi, tutto

apparirebbe non come un aleggiare di

veli impalpabili ma come un inferno di

stritolamenti e ingerimenti. Forse in

questo momento un dio degli inferi

situato al centro della terra col suo

occhio che trapassa il granito sta

guardandoci dal basso, seguendo il

ciclo del vivere e del morire, le

vittime sbranate che si disfano nei

ventri dei divoratori, finché alla

loro volta un altro ventre non li

inghiotte.

  Il geco resta immobile per ore; con

una frustata di lingua deglutisce ogni

tanto una zanzara o un moscerino;

altri insetti, invece, identici ai

primi, che pure si posano ignari a

pochi millimetri dalla sua bocca, pare

non li registri. E' la pupilla

verticale dei suoi occhi divaricati ai

lati del suo capo che non li scorge? O

ha motivi di scelta e di rifiuto che

noi non sappiamo? O agisce mosso dal

caso o dal capriccio?

  La segmentazione ad anelli di zampe

e coda, la picchiettatura di minute

piastre granulose sul capo e sul

ventre dànno al geco un'apparenza di

congegno meccanico; una macchina

elaboratissima, studiata in ogni

microscopico dettaglio, tanto che

viene da chiedersi se una tale

perfezione non sia sprecata, viste le

operazioni limitate che compie. O

forse è quello il suo segreto:

soddisfatto d'essere, riduce il fare

al minimo? Sarà questa la sua lezione,

l'opposto della morale che in gioventù

il signor Palomar aveva voluto far

sua: cercare sempre di fare qualcosa

un po' al di là dei propri mezzi?

  Ecco che gli capita a tiro una

smarrita farfallina notturna. La

trascura? No, acchiappa anche quella.

La lingua si trasforma in rete per

farfalle e la trascina dentro la

bocca. Ci sta tutta? La sputa?

Scoppia? No, la farfalla è là nella

gola: palpita, malconcia ma ancora se

stessa, non toccata dall'offesa di

denti masticatori, ecco che supera le

angustie della strozza, è un'ombra che

inizia il viaggio lento e combattuto

giù per un gonfio esofago.

  Il geco, uscito dalla sua

impassibilità, boccheggia, agita la

gola convulsa, tentenna su gambe e

coda, contorce il ventre sottoposto a

dura prova. Ne avrà abbastanza, per

stanotte? Se ne andrà? Era questo il

culmine d'ogni desiderio che lui

attendeva di soddisfare? Era questa la

prova ai limiti del possibile con cui

voleva misurarsi? No, resta. Forse s'è

addormentato. Com'è il sonno per chi

ha gli occhi senza palpebre?

  Neanche il signor Palomar sa

staccarsi di lì. Resta a fissarlo. Non

c'è tregua su cui si possa contare.

Anche a riaccendere la televisione,

non si fa che estendere la

contemplazione dei massacri. La

farfalla, fragile Euridice, sprofonda

lentamente nel suo Ade. Ecco vola un

moscerino, sta per posarsi sul vetro.

E la lingua del geco si scaglia.

 

 

 

 

 

       L'invasione degli storni

  C'è una cosa straordinaria da vedere

a Roma in questa fine d'autunno ed è

il cielo gremito d'uccelli. Il

terrazzo del signor Palomar è un buon

posto d'osservazione, da cui lo

sguardo spazia sopra i tetti per

un'ampia cerchia d'orizzonte. Di

questi uccelli, egli sa solo quel che

ha sentito dire in giro: sono storni

che si raccolgono a centinaia di

migliaia, provenienti dal Nord, in

attesa di partire tutti insieme per le

coste dell'Africa. Di notte dormono

sugli alberi della città, e chi

parcheggia la macchina sul

Lungotevere, al mattino è obbligato a

lavarla da cima a fondo.

  Dove vadano durante il giorno, che

funzione abbia nella strategia della

migrazione questa sosta prolungata in

una città, cosa significhino per loro

questi immensi raduni serali, questi

caroselli aerei come per una grande

manovra o una parata, il signor

Palomar non è riuscito ancora a

capirlo. Le spiegazioni che si dànno

sono tutte un po' dubbiose,

condizionate da ipotesi, oscillanti

tra varie alternative; ed è naturale

sia cos¡, trattandosi di voci che

passano di bocca in bocca, ma si ha

l'impressione che anche la scienza che

dovrebbe confermarle o smentirle sia

incerta, approssimativa. Stando cos¡

le cose, il signor Palomar ha deciso

di limitarsi a guardare, a fissare nei

minimi dettagli il poco che riesce a

vedere, tenendosi alle idee immediate

che gli suggerisce ciò che vede.

  Nell'aria viola del tramonto egli

guarda affiorare da una parte del

cielo un pulviscolo minutissimo, una

nuvola d'ali che volano. S'accorge che

sono migliaia e migliaia: la cupola

del cielo ne è invasa. Quella che fin

qui gli era sembrata un'immensità

tranquilla e vuota si rivela tutta

percorsa da presenze rapidissime e

leggere.

  Rassicurante visione, il passaggio

degli uccelli migratori, associato

nella nostra memoria ancestrale

all'armonico succedersi delle

stagioni; invece il signor Palomar

sente come un senso d'apprensione.

Sarà perché questo affollarsi del

cielo ci ricorda che l'equilibrio

della natura è perduto? O perché il

nostro senso d'insicurezza proietta

dovunque minacce di catastrofe?

  Quando si pensa agli uccelli

migratori ci si immagina di solito una

formazione di volo molto ordinata e

compatta, che solca il cielo in una

lunga schiera o falange ad angolo

acuto, quasi una forma d'uccello

composta d'innumerevoli uccelli.

Quest'immagine non vale per gli

storni, o almeno per questi storni

autunnali nel cielo di Roma: si tratta

d'una folla aerea che sembra sempre

stia per diradarsi e disperdersi, come

granelli d'una polverina in

sospensione in un liquido, e invece

continuamente s'addensa come se da un

condotto invisibile continuasse il

gettito di particelle vorticanti,

senza però mai arrivare a saturare la

soluzione.

  La nuvola si dilata, nereggiante

d'ali che si disegnano più nette nel

cielo, segno che si stanno

avvicinando. All'interno dello stormo

già il signor Palomar distingue una

prospettiva, dovuta al fatto che

alcuni volatili se li vede già

vicinissimi sopra la sua testa, altri

lontani, altri più lontani ancora, e

continua a scoprirne di sempre più

minuscoli e puntiformi, per chilometri

e chilometri, si direbbe, attribuendo

alle distanze tra l'uno e l'altro una

misura quasi uguale. Ma questa

illusione di regolarità è traditrice,

perché nulla è più difficile da

valutare che la densità di

distribuzione dei volatili in volo:

dove la compattezza dello stormo pare

stia per oscurare il cielo ecco che

tra pennuto e pennuto si spalancano

voragini di vuoto.

  Se si sofferma per qualche minuto a

osservare la disposizione degli

uccelli uno in rapporto all'altro, il

signor Palomar si sente preso in una

trama la cui continuità si estende

uniforme e senza brecce, come se anche

lui facesse parte di questo corpo in

movimento composto di centinaia e

centinaia di corpi staccati ma il cui

insieme costituisce un oggetto

unitario, come una nuvola o una

colonna di fumo o uno zampillo,

qualcosa cioè che pur nella fluidità

della sostanza raggiunge una sua

solidità nella forma. Ma basta che

egli si metta a seguire con lo sguardo

un singolo pennuto perché la

dissociazione degli elementi riprenda

il sopravvento ed ecco che la corrente

da cui si sentiva trasportato, la rete

da cui si sentiva sostenuto si

dissolvono e l'effetto è quello d'una

vertigine che lo prende alla bocca

dello stomaco.

  Questo avviene per esempio quando il

signor Palomar, dopo essersi persuaso

che lo stormo nel suo insieme sta

volando verso di lui, porta lo sguardo

su un uccello che invece si sta

allontanando, e da questo su un altro

che s'allontana anch'esso ma in una

direzione diversa, e in breve

s'accorge che tutti i volatili che gli

sembrava s'avvicinassero in realtà

stanno fuggendo via in tutte le

direzioni, come se lui si trovasse al

centro d'un'esplosione. Ma gli basta

volgere gli occhi verso un'altra zona

del cielo ed eccoli concentrarsi

laggiù, in un vortice sempre più fitto

e gremito, come quando una calamita

nascosta sotto un foglio attira la

limatura di ferro componendo disegni

che diventano ora più scuri ora più

chiari e alla fine si disfano e

lasciano sul foglio bianco una

picchiettatura di frammenti dispersi.

  Finalmente una forma emerge dal

confuso battere d'ali, avanza,

s'addensa: è una forma circolare, come

una sfera, una bolla, il fumetto di

qualcuno che sta pensando a un cielo

pieno d'uccelli, una valanga d'ali che

rotola nell'aria e coinvolge tutti gli

uccelli che volano intorno. Questa

sfera costituisce nello spazio

uniforme un territorio speciale, un

volume in movimento entro i cui limiti

- che pure si dilatano e contraggono

come una superficie elastica - gli

storni possono continuare a volare

ognuno nella propria direzione purché

non alterino la forma circolare

dell'insieme.

  A un certo punto il signor Palomar

s'accorge che il numero degli esseri

vorticanti all'interno del globo sta

rapidamente aumentando come se una

corrente velocissima vi travasasse una

nuova popolazione con la rapidità

della sabbia in una clessidra. E'

un'altra folata di storni che prende

anch'essa una forma sferica

dilatandosi all'interno della forma

precedente. Ma la coesione del branco

si direbbe che non resista al di là di

certe dimensioni: infatti il signor

Palomar sta già osservando una

dispersione di volatili sui bordi,

anzi, vere e proprie falle che

s'aprono e vanno sgonfiando la sfera.

Ha fatto appena in tempo ad

accorgersene e già la figura s'è

dissolta.

  Le osservazioni sugli uccelli si

susseguono e si moltiplicano a un

ritmo tale che per riordinarle nella

mente il signor Palomar sente il

bisogno di comunicarle agli amici.

Anche gli amici hanno qualcosa da dire

al riguardo, perché a ognuno è già

successo di interessarsi al fenomeno o

anche in loro si è destato

quest'interesse dopo che lui glie ne

ha parlato. E' un argomento che non si

può mai considerare esaurito e quando

uno degli amici crede d'aver visto

qualcosa di nuovo o di dover

rettificare un'impressione precedente,

si sente obbligato a telefonare subito

agli altri. Cos¡ un va e vieni di

messaggi scorre sulla rete telefonica

mentre il cielo è solcato da schiere

di volatili.

  - Hai visto come riescono sempre a

evitarsi anche dove volano più fitti,

anche quando i loro percorsi

s'incrociano? Si direbbe che abbiano

il radar.

  - Non è vero. Ho trovato sul

selciato degli uccelli malconci,

agonizzanti o morti. Sono le vittime

degli scontri in volo, inevitabili

quando la densità è troppo alta.

  - Ho capito perché alla sera

continuano a sorvolare tutti insieme

questa zona della città. Sono come gli

aerei che girano sopra l'aeroporto

finché non ricevono il segnale di "via

libera" per atterrare. Per questo li

vediamo volare intorno cos¡ a lungo;

aspettano il loro turno per posarsi

sugli alberi dove passeranno la notte.

  - Io ho visto come fanno quando

calano sugli alberi. Girano girano in

cielo a spirale, poi a uno a uno si

precipitano velocissimi verso l'albero

che hanno scelto, per poi frenare

bruscamente e posarsi sul ramo.

  - No, gli ingorghi del traffico

aereo non possono essere un problema.

Ogni uccello ha un albero che è il

suo, un suo ramo e un suo posto sul

ramo. Lo distingue dall'alto e si

butta.

  - Hanno la vista cos¡ acuta?

  - Mah.

  Non sono mai telefonate lunghe,

anche perché il signor Palomar è

impaziente di tornare sul terrazzo,

come avesse paura di perdere qualche

fase decisiva.

  Ora si direbbe che gli uccelli

occupino soltanto quella porzione di

cielo che è investita ancora dai raggi

del sole al tramonto. Ma guardando

meglio ci si rende conto che

l'addensarsi e diradarsi dei volatili

si sdipana come un lungo nastro

sventolante a zigzag. Dove questo

nastro si curva lo stormo appare più

fitto, come uno sciame d'api; dove

invece s'allunga senza torcersi c'è

solo una punteggiatura di voli

dispersi.

  Finché l'ultimo chiarore del cielo

scompare, una marea di buio sale dal

fondo delle vie a sommergere

l'arcipelago di tegole e cupole e

terrazze e attici e altane e

campanili; e la sospensione d'ali nere

degli invasori celesti precipita fino

a confondersi col greve volo degli

stolidi scacazzanti piccioni

cittadini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Palomar fa la spesa

   Un chilo e mezzo di grasso d'oca

  Il grasso d'oca si presenta in

flaconi di vetro, contenenti ognuno, a

quanto dice un'etichetta scritta a

mano: "due membra d'oca grassa (una

zampa e un'ala), grasso d'oca, sale e

pepe. Peso netto: un chilo e

cinquecento". Nello spesso e soffice

biancore che colma i flaconi

s'attutisce lo stridore del mondo:

un'ombra bruna sale dal fondo e come

nella nebbia del ricordo lascia

trasparire le sparse membra dell'oca,

svanita nel suo grasso.

  Il signor Palomar fa la coda in una

charcuterie di Parigi. Sono i giorni

delle feste, ma qui la ressa dei

clienti è abituale anche in epoche

meno canoniche, perché è uno dei buoni

negozi gastronomici della metropoli,

miracolosamente sopravvissuto in un

quartiere dove l'appiattimento del

commercio di massa, le tasse, il basso

reddito dei consumatori, e ora la

crisi, hanno smantellato a una a una

le vecchie botteghe sostituendole con

anonimi supermagazzini.

  Aspettando in fila, il signor

Palomar contempla i flaconi. Cerca di

trovare un posto nei suoi ricordi per

il cassoulet, pingue stufato di carni

e di fagioli, di cui il grasso d'oca è

ingrediente essenziale; ma né la

memoria del palato né quella culturale

gli sono d'aiuto. Eppure il nome, la

visione, l'idea lo attraggono,

risvegliano un'istantanea

fantasticheria non tanto della gola

quanto dell'eros: da una montagna di

grasso d'oca affiora una figura

femminile, si spalma di bianco la

pelle rosa, e già lui immagina se

stesso facendosi largo verso di lei

tra quelle dense valanghe e

abbracciarla e affondare con lei.

  Scaccia il pensiero incongruo dalla

mente, alza lo sguardo al soffitto

pavesato di salami che pendono da

ghirlande natalizie come frutti dai

rami del paese di cuccagna.

Tutt'intorno sulle alzate di marmo

l'abbondanza trionfa nelle forme

elaborate dalla civiltà e dall'arte.

Nelle fette di pƒté di selvaggina le

corse e i voli della brughiera si

fissano per sempre e si sublimano in

un arazzo di sapori. Le galantine di

fagiano si distendono in cilindri

grigiorosa sormontati, per autenticare

la propria origine, da due zampe

uccellesche come artigli che si

protendono da un blasone araldico o da

un mobile rinascimentale.

  Attraverso gli involucri di gelatina

spiccano i grossi nèi di tartufo nero

messi in fila come bottoni sulla

giubba d'un Pierrot, come note d'una

partitura, a costellare le rosee

variegate aiole dei pƒtés de foie

gras, delle soppressate, delle

terrines, le galantine, i ventagli di

salmone, i fondi di carciofo guarniti

come trofei. Il motivo conduttore dei

dischetti di tartufo unifica la

varietà delle sostanze come un

nereggiare d'abiti da sera in un

veglione mascherato, e contrassegna

l'abbigliamento da festa dei cibi.

  Grigia e opaca e arcigna è invece la

gente che si fa largo tra i banchi,

smistata da commesse biancovestite,

più o meno anziane, di brusca

efficienza. Lo splendore delle tartine

di salmone raggianti di maionese

sparisce inghiottito dalle oscure

borse dei clienti. Certo ognuno e

ognuna di costoro sa esattamente

quello che vuole, punta diritto sul

suo obiettivo con una determinazione

senza incertezze, e rapidamente

smantella montagne di vol-au-vent, di

bodini bianchi, di salsicce

cervellate.

  Il signor Palomar vorrebbe cogliere

nei loro sguardi un riflesso della

fascinazione di quei tesori, ma i visi

e i gesti sono solo impazienti e

sfuggenti, di persone concentrate in

se stesse, a nervi tesi, preoccupate

di ciò che ha e ciò che non ha.

Nessuno gli sembra degno della gloria

pantagruelica che si dispiega lungo le

vetrine e sui banchi. Un'avidità senza

gioia né gioventù li spinge: eppure un

legame profondo, atavico esiste tra

loro e quei cibi, consustanziali a

loro, carne della loro carne.

  S'accorge di provare un sentimento

molto simile alla gelosia: vorrebbe

che dai loro vassoi i pƒté d'anatra e

di lepre dimostrassero di preferire

lui agli altri, di riconoscere in lui

il solo che merita i loro doni, quei

doni che natura e cultura hanno

tramandato per millenni e che non

devono cadere in mani profane! Il

sacro entusiasmo da cui si sente

pervaso non è forse il segno che lui

solo è l'eletto, il toccato dalla

grazia, lui solo a meritare la

profluvie dei beni traboccanti dalla

cornucopia del mondo?

  Si guarda attorno aspettando di

sentir vibrare un'orchestra di sapori.

No, non vibra niente. Tutti quei

manicaretti risvegliano in lui ricordi

approssimativi e mal distinti, la sua

immaginazione non associa

istintivamente i sapori alle immagini

e ai nomi. Si domanda se la sua

ghiottoneria non sia soprattutto

mentale, estetica, simbolica. Forse

per quanto sinceramente egli ami le

galantine, le galantine non lo amano.

Sentono che il suo sguardo trasforma

ogni vivanda in un documento della

storia della civiltà, in un oggetto da

museo.

  Il signor Palomar vorrebbe che la

coda avanzasse più in fretta. Sa che

se passa ancora qualche minuto in quel

negozio, finirà per convincersi

d'essere lui il profano, l'estraneo,

lui l'escluso.

 

 

        Il museo dei formaggi

  Il signor Palomar fa la coda in un

negozio di formaggi, a Parigi. Vuole

comprare certi formaggini di capra che

si conservano sott'olio in piccoli

recipienti trasparenti, conditi con

varie spezie ed erbe. La fila dei

clienti procede lungo un banco dove

sono esposti esemplari delle

specialità più insolite e disparate.

E' un negozio il cui assortimento

sembra voler documentare ogni forma di

latticino pensabile; già l'insegna

"Spécialités froumagères" con quel

raro aggettivo arcaico o vernacolo

avverte che qui si custodisce

l'eredità d'un sapere accumulato da

una civiltà attraverso tutta la sua

storia e geografia.

  Tre o quattro ragazze in grembiule

rosa accudiscono i clienti. Appena una

è libera, prende a carico il primo

della fila e l'invita a dichiarare i

suoi desideri; il cliente nomina e più

spesso indica, spostandosi per il

negozio verso l'oggetto dei suoi

appetiti precisi e competenti.

  In quel momento tutta la fila si

sposta avanti d'un passo; e chi finora

aveva sostato accanto al "Bleu

d'Auvergne" venato di verde viene a

trovarsi all'altezza del "Brin

d'amour" il cui biancore trattiene

fili di paglia secca appiccicati; chi

contemplava una palla avvolta in

foglie può concentrarsi su un cubo

cosparso di cenere. C'è chi dagli

incontri di queste fortuite tappe trae

ispirazione per nuovi stimoli e nuovi

desideri: cambia idea su quel che

stava per chiedere o aggiunge una

nuova voce alla sua lista; e c'è chi

non si lascia distrarre nemmeno per un

istante dall'obiettivo che sta

perseguendo e ogni suggestione diversa

in cui s'imbatte serve solo a

delimitare, per via d'esclusione, il

campo di ciò che lui testardamente

vuole.

  L'animo di Palomar oscilla tra

spinte contrastanti: quella che tende

a una conoscenza completa, esaustiva,

e potrebbe essere soddisfatta solo

assaporando tutte le qualità; o quella

che tende a una scelta assoluta,

all'identificazione del formaggio che

solo è suo, un formaggio che

certamente esiste anche se lui ancora

non sa riconoscerlo (non sa

riconoscersi in esso).

  Oppure, oppure: non è questione di

scegliere il proprio formaggio ma

d'essere scelti. C'è un rapporto

reciproco tra formaggio e cliente:

ogni formaggio aspetta il suo cliente,

si atteggia in modo d'attrarlo, con

una sostenutezza o granulosità un po'

altezzosa, o al contrario

sciogliendosi in un arrendevole

abbandono.

  Un'ombra di complicità viziosa

aleggia intorno: la raffinatezza

gustativa e soprattutto olfattiva

conosce i suoi momenti di

rilassatezza, d'incanaglimento, in cui

i formaggi sui loro vassoi sembrano

offrirsi come sui divani d'un

bordello. Un sogghigno perverso

affiora nel compiacimento d'avvilire

l'oggetto della propria ghiottoneria

con nomignoli infamanti: crottin,

boule de moine, bouton de

culotte.

  Non è questo il tipo di conoscenza

che il signor Palomar è più portato ad

approfondire: a lui basterebbe

stabilire la semplicità d'un rapporto

fisico diretto tra uomo e formaggio.

Ma se lui al posto dei formaggi vede

nomi di formaggi, concetti di

formaggi, significati di formaggi,

storie di formaggi, contesti di

formaggi, psicologie di formaggi, se -

più che sapere - presente che dietro a

ogni formaggio ci sia tutto questo,

ecco che il suo rapporto diventa molto

complicato.

  La formaggeria si presenta a Palomar

come un'enciclopedia a un autodidatta;

potrebbe memorizzare tutti i nomi,

tentare una classificazione a seconda

delle forme - a saponetta, a cilindro,

a cupola, a palla -, a seconda della

consistenza - secco, burroso, cremoso,

venoso, compatto -, a seconda dei

materiali estranei coinvolti nella

crosta o nella pasta - uva passa,

pepe, noci, sesamo, erbe, muffe -, ma

questo non l'avvicinerebbe d'un passo

alla vera conoscenza, che sta

nell'esperienza dei sapori, fatta di

memoria e d'immaginazione insieme, e

in base ad essa soltanto potrebbe

stabilire una scala di gusti e

preferenze e curiosità ed esclusioni.

  Dietro ogni formaggio c'è un pascolo

d'un diverso verde sotto un diverso

cielo: prati incrostati di sale che le

maree di Normandia depositano ogni

sera; prati profumati d'aromi al sole

ventoso di Provenza; ci sono diversi

armenti con le loro stabulazioni e

transumanze; ci sono segreti di

lavorazione tramandati nei secoli.

Questo negozio è un museo: il signor

Palomar visitandolo sente, come al

Louvre, dietro ogni oggetto esposto la

presenza della civiltà che gli ha dato

forma e che da esso prende forma.

  Questo negozio è un dizionario; la

lingua è il sistema dei formaggi nel

suo insieme: una lingua la cui

morfologia registra declinazioni e

coniugazioni in innumerevoli varianti,

e il cui lessico presenta una

ricchezza inesauribile di sinonimi,

usi idiomatici, connotazioni e

sfumature di significato, come tutte

le lingue nutrite dall'apporto di

cento dialetti. E' una lingua fatta di

cose; la nomenclatura ne è solo un

aspetto esteriore, strumentale; ma per

il signor Palomar impararsi un po' di

nomenclatura resta sempre la prima

misura da prendere se vuole fermare un

momento le cose che scorrono davanti

ai suoi occhi.

  Estrae di tasca un taccuino, una

penna, comincia a scriversi dei nomi,

a segnare accanto a ogni nome qualche

qualifica che permetta di richiamare

l'immagine alla memoria; prova anche a

disegnare uno schizzo sintetico della

forma. Scrive pavé d'Airvault,

annota "muffe verdi", disegna un

parallelepipedo piatto e su un lato

annota "4 cm circa"; scrive

St-Maure, annota "cilindro grigio

granuloso con un bastoncino dentro" e

lo disegna, misurandolo a occhio "20

cm"; poi scrive Chabicholi e disegna

un piccolo cilindro.

  - Monsieur! Houhou! Monsieur! -

Una giovane formaggiaia vestita di

rosa è davanti a lui, assorto nel suo

taccuino. E' il suo turno, tocca a

lui, nella fila dietro di lui tutti

stanno osservando il suo incongruo

comportamento e scuotono il capo con

l'aria tra ironica e spazientita con

cui gli abitanti delle grandi città

considerano il numero sempre crescente

dei deboli di mente in giro per le

strade.

  L'ordinazione elaborata e ghiotta

che aveva intenzione di fare gli

sfugge dalla memoria; balbetta;

ripiega sul più ovvio, sul più banale,

sul più pubblicizzato, come se gli

automatismi della civiltà di massa non

aspettassero che quel suo momento

d'incertezza per riafferrarlo in loro

bal¡a.

         Il marmo e il sangue

  Le riflessioni che il negozio del

macellaio ispira a chi vi entra con la

borsa della spesa coinvolgono

cognizioni tramandate per secoli in

varie branche del sapere: la

competenza delle carni e dei tagli, il

miglior modo di cuocere ogni pezzo, i

riti che permettono di placare il

rimorso per l'uccisione d'altre vite

al fine di nutrire la propria. La

sapienza macellatrice e quella

culinaria appartengono alle scienze

esatte, verificabili in base a

esperimenti, tenendo conto dei costumi

e delle tecniche che variano da paese

a paese; la sapienza sacrificale

invece è dominata dall'incertezza, e

per di più caduta in oblio da secoli,

ma pesa sulle coscienze oscuramente,

come esigenza inespressa. Una

devozione reverente per tutto ciò che

riguarda la carne guida il signor

Palomar che s'accinge a comprare tre

bistecche. Tra i marmi della

macelleria egli sosta come in un

tempio, conscio che la sua esistenza

individuale e la cultura cui egli

appartiene sono condizionate da questo

luogo.

  La fila dei clienti scorre

lentamente lungo l'alto banco di

marmo, lungo le mensole e i vassoi

dove s'allineano i tagli di carne,

ognuno con infisso il cartello del

prezzo e il nome. Si succedono il

rosso vivo del bue, il rosa chiaro del

vitello, il rosso smorto dell'agnello,

il rosso cupo del maiale. Avvampano

vaste costate, tondi tournedos dallo

spessore foderato d'un nastro di

lardo, controfiletti agili e

slanciati, bistecche armate del loro

osso impugnabile, girelli massicci e

tutti magro, pezzi da bollito

stratificati di magro e di grasso,

arrosti che attendono lo spago che li

costringa a concentrarsi su se stessi;

poi i colori s'attenuano: scaloppe di

vitello, lombatine, pezzi di spalla e

di petto, tenerumi; ed ecco entriamo

nel regno dei cosciotti e delle spalle

d'agnello; più in là biancheggia una

trippa, nereggia un fegato...

  Dietro il banco, i macellai

biancovestiti brandiscono le mannaie

dalla lama trapezoidale, i coltellacci

per affettare e quelli per scorticare,

le seghe per troncare gli ossi, i

batticarne con cui premono i

serpeggianti riccioli rosa nell'imbuto

della macchina trituratrice. Dai ganci

pendono corpi squartati a ricordarti

che ogni tuo boccone è parte d'un

essere alla cui completezza vivente è

stato arbitrariamente strappato.

  In un cartellone al muro, il profilo

d'un bue appare come una carta

geografica percorsa da linee di

confine che delimitano le aree

d'interesse mangereccio, comprendenti

l'intera anatomia dell'animale,

esclusi corna e zoccoli. La mappa

dell'habitat umano è questa, non meno

del planisfero del pianeta, entrambi

protocolli che dovrebbero sancire i

diritti che l'uomo s'è attribuito, di

possesso, spartizione e divoramento

senza residui dei continenti terrestri

e dei lombi del corpo animale.

  Occorre dire che la simbiosi

uomo-bue ha raggiunto nei secoli un

suo equilibrio (permettendo alle due

specie di continuare a moltiplicarsi)

sia pur asimmetrico (è vero che l'uomo

provvede a nutrire il bue, ma non è

tenuto a darglisi in pasto) e ha

garantito il fiorire della civiltà

detta umana, che almeno per una sua

porzione andrebbe detta umano-bovina

(coincidente in parte con quella

umano-ovina e ancor più parzialmente

con l'umano-suina, secondo le

alternative d'una complicata geografia

d'interdizioni religiose). Il signor

Palomar partecipa a questa simbiosi

con lucida coscienza e pieno consenso:

pur riconoscendo nella carcassa di bue

penzolante la persona del proprio

fratello squartato, nel taglio della

lombata la ferita che mutila la

propria carne, egli sa d'essere

carnivoro, condizionato dalla sua

tradizione alimentare a cogliere da un

negozio di macellaio la promessa della

felicità gustativa, a immaginare

osservando queste trance rosseggianti

le zebrature che la fiamma lascerà

sulle bistecche alla griglia e il

piacere del dente nel recidere la

fibra brunita.

  Un sentimento non esclude l'altro:

lo stato d'animo di Palomar che fa la

fila nella macelleria è insieme di

gioia trattenuta e di timore, di

desiderio e di rispetto, di

preoccupazione egoistica e di

compassione universale, lo stato

d'animo che forse altri esprimono

nella preghiera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           Palomar allo zoo

        La corsa delle giraffe

  Il signor Palomar allo zoo di

Vincennes si ferma davanti al recinto

delle giraffe. Ogni tanto le giraffe

adulte si mettono a correre seguite

dalle giraffe bambine, si lanciano

alla carica fin quasi alla rete del

recinto, girano su se stesse, ripetono

il percorso a gran carriera due o tre

volte, si fermano. Il signor Palomar

non si stanca d'osservare la corsa

delle giraffe, affascinato dalla

disarmonia dei loro movimenti. Non

riesce a decidere se galoppano o se

trottano, perché il passo delle zampe

posteriori non ha niente a che fare

con quello delle anteriori. Le zampe

anteriori, dinoccolate, si arcuano

fino al petto e si srotolano fino a

terra, come incerte su quali delle

tante articolazioni piegare in quel

determinato secondo. Le zampe

posteriori, molto più corte e rigide,

tengono dietro a balzi, un po' di

sbieco, come fossero gambe di legno, o

stampelle che arrancano, ma cos¡ come

per gioco, come sapendo d'essere

buffe. Intanto il collo teso avanti

ondeggia in su e in giù, come il

braccio d'una gru, senza che si possa

stabilire un rapporto tra i movimenti

delle zampe e questo del collo. C'è

poi anche un sobbalzo della groppa, ma

questo non è che il movimento del

collo che fa leva sul resto della

colonna vertebrale.

  La giraffa sembra un meccanismo

costruito mettendo insieme pezzi

provenienti da macchine eterogenee, ma

che pur tuttavia funziona

perfettamente. Il signor Palomar,

continuando a osservare le giraffe in

corsa, si rende conto d'una complicata

armonia che comanda quel trepestio

disarmonico, d'una proporzione interna

che lega tra loro le più vistose

sproporzioni anatomiche, d'una grazia

naturale che vien fuori da quelle

movenze sgraziate. L'elemento

unificatore è dato dalle macchie del

pelo, disposte in figure irregolari ma

omogenee, dai contorni netti e

angolosi; esse si accordano come un

esatto equivalente grafico ai

movimenti segmentati dell'animale. Più

che di macchie si dovrebbe parlare

d'un manto nero la cui uniformità è

spezzata da nervature chiare che

s'aprono seguendo un disegno a

losanghe: una discontinuità di

pigmentazione che già annuncia la

discontinuità dei movimenti.

  A questo punto la bambina del signor

Palomar, che si è stancata da un pezzo

di guardare le giraffe, lo trascina

verso la grotta dei pinguini. Il

signor Palomar, cui i pinguini dànno

angoscia, la segue a malincuore, e si

domanda il perché del suo interesse

per le giraffe. Forse perché il mondo

intorno a lui si muove in modo

disarmonico ed egli spera sempre di

scoprirvi un disegno, una costante.

Forse perché lui stesso sente di

procedere spinto da moti della mente

non coordinati, che sembrano non aver

niente a che fare l'uno con l'altro e

che è sempre più difficile far

quadrare in un qualsiasi modello

d'armonia interiore.

 

 

          Il gorilla albino

  Nello zoo di Barcellona esiste

l'unico esemplare che si conosca al

mondo di scimmione albino, un gorilla

dell'Africa equatoriale. Il signor

Palomar si fa largo tra la folla che

s'assiepa nel suo padiglione. Al di là

d'una vetrata, "Copito de Nieve"

("Fiocco di neve", cos¡ lo chiamano),

è una montagna di carne e pelo bianco.

Seduto contro una parete sta prendendo

il sole. La maschera facciale è d'un

roseo umano, lavorata dalle rughe;

anche il petto mostra una pelle glabra

e rosea, come quella degli uomini di

razza bianca. Quel viso dalle fattezze

enormi, da gigante triste, ogni tanto

si volta verso la folla dei visitatori

oltre il vetro, a meno d'un metro da

lui; un lento sguardo carico di

desolazione e pazienza e noia, uno

sguardo che esprime tutta la

rassegnazione a essere come si è,

unico esemplare al mondo d'una forma

non scelta, non amata, tutta la fatica

di portarsi addosso la propria

singolarità, tutta la pena d'occupare

lo spazio e il tempo con la propria

presenza cos¡ ingombrante e vistosa.

  La vetrata apre la vista su un

recinto circondato d'alte pareti in

muratura che gli dànno un aspetto di

cortile di prigione ma che è in realtà

il "giardino" della casa-gabbia dei

gorilla, dal cui suolo s'elevano un

basso albero senza foglie e una scala

di ferro da palestra di ginnastica.

Più in là nel cortiletto c'è la

femmina, una grande gorilla nera con

un piccolo pure nero in braccio: il

biancore del pelo non si eredita;

"Copito de Nieve" resta l'unico albino

di tutti i gorilla.

  Canuto e immobile, lo scimmione

evoca alla mente del signor Palomar

un'antichità immemoriale, come le

montagne o le piramidi. In realtà è un

animale ancora giovane e solo il

contrasto tra il volto roseo e il

corto pelo candido che lo incornicia e

soprattutto le rughe tutt'intorno agli

occhi gli dànno l'apparenza d'un

vegliardo. Per il resto, l'aspetto di

"Copito de Nieve" presenta meno

somiglianze con l'uomo di quello

d'altri Primati: al posto del naso le

narici scavano una doppia voragine; le

mani, pelose e - si direbbe - poco

articolate, all'estremità di braccia

molto lunghe e rigide, sono ancora in

realtà delle zampe, e come tali il

gorilla le usa nel camminare,

appoggiandole al suolo come un

quadrupede.

  Ora queste braccia-zampe stringono

contro il petto un copertone di

pneumatico d'auto. Nell'enorme vuoto

delle sue ore, "Copito de Nieve" non

abbandona mai il copertone. Cosa sarà

questo oggetto per lui? Un giocattolo?

Un feticcio? Un talismano? A Palomar

sembra di capire perfettamente il

gorilla, il suo bisogno d'una cosa da

tener stretta mentre tutto gli sfugge,

una cosa in cui placare l'angoscia

dell'isolamento, della diversità,

della condanna a essere sempre

considerato un fenomeno vivente, dalle

sue femmine e dai suoi figli come dai

visitatori dello zoo.

  Anche la femmina possiede un

copertone d'auto, ma questo per lei è

un oggetto d'uso, con cui ha un

rapporto pratico e senza problemi: ci

sta seduta dentro come in una

poltrona, a prendere il sole

spulciando il figlioletto. Per "Copito

de Nieve" invece il contatto col

pneumatico sembra essere qualcosa

d'affettivo, di possessivo e in

qualche modo simbolico. Di lì gli si

può aprire uno spiraglio verso quella

che per l'uomo è la ricerca d'una via

d'uscita dallo sgomento di vivere:

l'investire se stesso nelle cose, il

riconoscersi nei segni, il trasformare

il mondo in un insieme di simboli;

quasi un primo albeggiare della

cultura nella lunga notte biologica.

Per far questo il gorilla albino

dispone solo d'un copertone d'auto, un

artefatto della produzione umana,

estraneo a lui, privo d'ogni

potenzialità simbolica, nudo di

significati, astratto. Non si direbbe

che a contemplarlo se ne possa cavare

molto. Eppure, che cosa meglio d'un

cerchio vuoto è in grado d'assumere

tutti i significati che si vuole

attribuirgli? Forse immedesimandosi in

esso il gorilla è sul punto di

raggiungere al fondo del silenzio le

sorgenti da cui scaturisce il

linguaggio, di stabilire un flusso di

rapporti tra i suoi pensieri e

l'irreducibile sorda evidenza dei

fatti che determinano la sua vita...

  Uscito dallo zoo il signor Palomar

non può togliersi dalla mente

l'immagine del gorilla albino. Prova a

parlarne con chi incontra, ma non

riesce a farsi ascoltare da nessuno.

La notte, tanto nelle ore d'insonnia

quanto nei brevi sogni, continua ad

apparirgli lo scimmione. "Come il

gorilla ha il suo pneumatico che gli

serve da supporto tangibile per un

farneticante discorso senza parole, -

egli pensa, - cos¡ io ho

quest'immagine d'uno scimmione bianco.

Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio

copertone vuoto mediante il quale

vorremmo raggiungere il senso ultimo a

cui le parole non giungono".

 

 

 

       L'ordine degli squamati

  Il signor Palomar vorrebbe capire

perché le iguane lo attirano; a Parigi

va di tanto in tanto a visitare il

rettilario del Jardin des Plantes; non

ne resta mai deluso; quello che la

vista dell'iguana ha in sé di

straordinario, anzi d'unico, gli è ben

chiaro; ma sente che c'è qualcosa in

più e non sa dire cosa sia.

  L'Iguana iguana è ricoperta d'una

pelle verde come tessuta di

minutissime scaglie picchiettate. Di

questa pelle ce n'è troppa: sul collo,

sulle zampe forma pieghe, borse,

sbuffi, come un vestito che dovrebbe

stare aderente al corpo e invece va

giù da tutte le parti. Lungo la spina

dorsale s'innalza una cresta dentata

che continua fin sulla coda; la coda è

anch'essa verde fino a un certo punto,

poi più s'allunga più sbiadisce e si

segmenta in anelli di colore

alternato: bruno chiaro e bruno scuro.

Sul muso a squame verdi, l'occhio

s'apre e si chiude, ed è quest'occhio

"evoluto", dotato di sguardo, di

attenzione, di tristezza, a dar l'idea

che un altro essere sia nascosto sotto

quelle parvenze di drago: un animale

più simile a quelli con cui abbiamo

confidenza, una presenza vivente meno

distante da noi di quanto sembra...

  Poi, altre creste spinose sotto il

mento, sul collo due placche bianche

tonde come d'apparecchio acustico: una

quantità d'accessori e ammenicoli,

rifiniture e guarnizioni difensive, un

campionario di forme disponibili nel

regno animale e forse anche negli

altri regni, troppa roba per trovarsi

tutta addosso a una sola bestia, cosa

ci sta a fare? Serve a mascherare

qualcuno che ci sta guardando da lì

dentro?

  Le zampe anteriori a cinque dita

farebbero pensare più ad artigli che a

mani se non fossero impiantate su vere

e proprie braccia, muscolose e ben

modellate; non cos¡ le zampe

posteriori, lunghe e molli, con dita

come propaggini vegetali. Ma l'animale

nel suo insieme, pur dal fondo del suo

rassegnato immobile torpore, comunica

un'immagine di forza.

  Alla vetrina dell'Iguana iguana il

signor Palomar si è fermato dopo aver

contemplato quella con le dieci

piccole iguane aggrappate una

sull'altra, che si scambiano

continuamente di posizione con agili

mosse di gomiti e ginocchi, e si

tendono tutte nel senso

dell'allungamento: la pelle d'un verde

brillante, con un puntino color rame

al posto delle branchie, una barba

bianca crestata, occhi chiari aperti

intorno alla pupilla nera. Poi il

Varano delle Savane, che si nasconde

nella sabbia del suo stesso colore; il

Tegu o Tupinambis nero-giallastro,

quasi un caimano; il Cordilo gigante

africano dalle scaglie puntute e folte

come pelo o foglie, colore del

deserto, cos¡ concentrato nel suo

intento d'escludersi dal mondo che si

avvolge a cerchio serrandosi la coda

contro il capo. Il guscio verdegrigio

di sopra e bianco sotto d'una

testuggine immersa nell'acqua d'una

vasca trasparente sembra molle,

carnoso; il muso appuntito s'affaccia

come da un alto colletto.

  La vita nel padiglione dei rettili

appare come uno spreco di forme senza

stile e senza piano, dove tutto è

possibile, e bestie e piante e rocce

si scambiano squame, aculei,

concrezioni, ma tra le infinite

possibili combinazioni solo alcune -

forse proprio le più incredibili - si

fissano, resistono al flusso che le

disfa e rimescola e riplasma; e subito

ognuna di queste forme diventa centro

d'un mondo, separata per sempre dalle

altre, come qui nella fila delle

gabbie-vetrine dello zoo, e in questo

numero finito di modi d'essere, ognuno

identificato in una sua mostruosità, e

necessità, e bellezza, consiste

l'ordine, l'unico ordine riconoscibile

al mondo. La sala delle iguane al

Jardin des Plantes con le sue vetrine

illuminate, dove rettili in

dormiveglia si nascondono tra rami e

rocce e sabbia della loro foresta

originaria o del deserto, rispecchia

l'ordine del mondo, sia esso il

riflesso in terra del cielo delle idee

o la manifestazione esteriore del

segreto della natura delle cose, della

norma nascosta nel fondo di ciò che

esiste.

  E' questo ambiente, più che i

rettili in sé, ciò che oscuramente

attrae il signor Palomar? Un calore

umido e molle impregna l'aria come una

spugna; un puzzo acre, greve, fradicio

obbliga a trattenere il respiro;

l'ombra e la luce stagnano in una

mescolanza immobile di giorni e di

notti: sono queste le sensazioni di

chi s'affaccia fuori dall'umano? Al di

là del vetro d'ogni gabbia c'è il

mondo di prima dell'uomo, o di dopo, a

dimostrare che il mondo dell'uomo non

è eterno e non è l'unico. E' per

rendersene conto coi suoi occhi che il

signor Palomar passa in rassegna

questi stalli in cui dormono i pitoni,

i boa, i crotali dei bamb£, le culevre

arboricole delle Bermude?

  Ma dei mondi da cui l'uomo è

escluso, ogni vetrina è un campione

minimo, strappato da una continuità

naturale che potrebbe anche non essere

mai esistita, pochi metri cubi

d'atmosfera che congegni elaborati

mantengono a un certo grado di

temperatura e d'umidità. Dunque ogni

esemplare di questo bestiario

antidiluviano è tenuto in vita

artificialmente, quasi fosse

un'ipotesi della mente, un prodotto

dell'immaginazione, una costruzione

del linguaggio, un'argomentazione

paradossale intesa a dimostrare che il

solo mondo vero è il nostro...

  Come se solo adesso l'odore dei

rettili diventasse insostenibile, il

signor Palomar sente d'improvviso il

desiderio d'uscire all'aperto. Deve

attraversare la gran sala dei

coccodrilli, dove s'allinea una fila

di vasche separate da barriere. Nella

parte asciutta a fianco d'ogni vasca

giacciono i coccodrilli, soli o in

coppia, di color spento, tozzi,

ruvidi, orrendi, distesi pesantemente,

appiattiti al suolo per tutta

l'estensione dei lunghi musi crudeli,

dei freddi ventri, delle larghe code.

Sembrano tutti addormentati, anche

quelli che tengono gli occhi aperti, o

forse tutti insonni in una desolazione

attonita, anche a occhi chiusi. Di

tanto in tanto uno di loro si scuote

lentamente, si solleva appena sulle

corte zampe, striscia sull'orlo della

vasca, si lascia cadere con un tonfo

piatto sollevando un'ondata, fluttua

immerso a mezz'acqua, immobile come

prima. E' una smisurata pazienza, la

loro, o una disperazione senza fine?

Cosa aspettano, o cosa hanno smesso

d'aspettare? In quale tempo sono

immersi? In quello della specie,

sottratto alla corsa delle ore che

precipitano dalla nascita alla morte

dell'individuo? O nel tempo delle ere

geologiche che sposta i continenti e

rassoda la crosta delle terre emerse?

O nel lento raffreddarsi dei raggi del

sole? Il pensiero d'un tempo fuori

della nostra esperienza è

insostenibile. Palomar s'affretta a

uscire dal padiglione dei rettili, che

si può frequentare solo di tanto in

tanto e di sfuggita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    I silenzi di Palomar

 

         I viaggi di Palomar

          L'aiola di sabbia

  Un piccolo cortile ricoperto d'una

sabbia bianca a grossi grani, quasi

una ghiaia, rastrellata in solchi

diritti paralleli o in circoli

concentrici, intorno a cinque gruppi

irregolari di sassi o bassi scogli.

Questo è uno dei monumenti più famosi

della civiltà giapponese, il giardino

di rocce e sabbia del tempio Ryoanji

di Kyoto, l'immagine tipica della

contemplazione dell'assoluto da

raggiungersi coi mezzi più semplici e

senza il ricorso a concetti

esprimibili con parole, secondo

l'insegnamento dei monaci Zen, la

setta più spirituale del buddismo.

  Il recinto rettangolare di sabbia

incolore è fiancheggiato su tre lati

da muri sormontati da tegole, oltre i

quali verdeggiano gli alberi. Sul

quarto lato è una pedana di legno a

gradini dove il pubblico può passare e

sostare e sedersi. "Se il nostro

sguardo interiore resterà assorto

nella vista di questo giardino, -

spiega il volantino che viene offerto

ai visitatori, in giapponese e in

inglese, firmato dall'abate del

tempio, - ci sentiremo spogliati dalla

relatività del nostro io individuale,

mentre l'intuizione dell'Io assoluto

ci riempirà di serena meraviglia,

purificando le nostre menti

offuscate".

  Il signor Palomar è disposto a

seguire questi consigli con fiducia e

si siede sui gradini, osserva le rocce

una per una, segue le ondulazioni

sulla sabbia bianca, lascia che

l'armonia indefinibile che collega gli

elementi del quadro lo pervada a poco

a poco.

  Ossia: cerca di immaginare tutte

queste cose come le sentirebbe

qualcuno che potesse concentrarsi a

guardare il giardino Zen in solitudine

e in silenzio. Perché - avevamo

dimenticato di dirlo - il signor

Palomar è stretto sulla pedana in

mezzo a centinaia di visitatori che lo

spingono da tutte le parti, obiettivi

di macchine fotografiche e di

cineprese che si fanno largo tra i

gomiti, i ginocchi, gli orecchi della

folla inquadrando le rocce e la sabbia

da ogni angolazione, illuminate dalla

luce naturale o dai flash. Torme di

piedi in calzini di lana lo scavalcano

(le scarpe, come sempre in Giappone,

si lasciano all'ingresso), figliolanze

numerose vengono spinte in prima fila

da genitori pedagogici, frotte di

studenti in uniforme si sospingono,

ansiosi solo di smaltire al più presto

la visita scolastica al monumento

famoso; visitatori diligenti col

ritmico su e giù del capo verificano

se tutto quel che c'è scritto nella

guida corrisponde alla realtà e se

tutto quel che si vede nella realtà

c'è scritto sulla guida.

  "Possiamo vedere il giardino di

sabbia come un arcipelago d'isole

rocciose nell'immensità dell'oceano,

oppure come cime d'alte montagne che

emergono da un mare di nuvole.

Possiamo vederlo come un quadro

incorniciato dai muri del tempio, o

dimenticarsi della cornice e

convincerci che il mare di sabbia

s'espanda senza limiti e copra tutto

il mondo".

  Queste "istruzioni per l'uso" sono

contenute nel volantino, e al signor

Palomar paiono perfettamente

plausibili e applicabili

immediatamente senza sforzo, purché

uno sia sicuro davvero d'avere

un'individualità di cui spogliarsi, di

star guardando il mondo dall'interno

d'un io che possa dissolversi e

diventare solo sguardo. Ma è proprio

questo punto di partenza che richiede

uno sforzo d'immaginazione

supplementare, difficilissimo a

compiersi quando il proprio io è

agglutinato in una folla compatta che

guarda attraverso i suoi mille occhi e

percorre sui suoi mille piedi

l'itinerario obbligato della visita

turistica.

  Non resta che concludere che le

tecniche mentali Zen per raggiungere

l'estremo dell'umiltà, il distacco da

ogni possessività e orgoglio hanno

come sfondo necessario il privilegio

aristocratico, presuppongono

l'individualismo con tanto spazio e

tanto tempo intorno a sé, gli

orizzonti d'una solitudine senz'ansia?

  Ma questa conclusione che porta al

solito rimpianto d'un paradiso perduto

per il dilagare della civiltà di

massa, suona troppo facile al signor

Palomar. Egli preferisce mettersi per

una via più difficile, cercare

d'afferrare quel che il giardino Zen

può dargli a guardarlo nella sola

situazione in cui può essere guardato

oggi, sporgendo il proprio collo tra

altri colli.

  Cosa vede? Vede la specie umana

nell'èra dei grandi numeri che

s'estende in una folla livellata ma

pur sempre fatta d'individualità

distinte come questo mare di granelli

di sabbia che sommerge la superficie

del mondo... Vede il mondo

ciononostante continuare a mostrare i

dorsi di macigno della sua natura

indifferente al destino dell'umanità,

la sua dura sostanza irreducibile

all'assimilazione umana... Vede le

forme in cui la sabbia umana s'aggrega

tendere a disporsi secondo linee di

movimento, disegni che combinano

regolarità e fluidità come le tracce

rettilinee o circolari d'un

rastrello... E tra umanità-sabbia e

mondo-scoglio si intuisce un'armonia

possibile come tra due armonie non

omogenee: quella del non-umano in un

equilibrio di forze che sembra non

risponda a nessun disegno; quella

delle strutture umane che aspira a una

razionalità di composizione geometrica

o musicale, mai definitiva...

 

 

 

          Serpenti e teschi

  In Messico, il signor Palomar sta

visitando le rovine di Tula, antica

capitale dei Toltechi. Lo accompagna

un amico messicano, conoscitore

appassionato ed eloquente delle

civiltà preispaniche, che gli racconta

bellissime leggende di Quetzalcoatl.

Prima di diventare un dio,

Quetzalcoatl fu un re che ebbe qui a

Tula la sua reggia; ne resta una

distesa di colonne mozze intorno a un

impluvium, un po' come un palazzo

della Roma antica.

  Il tempio della Stella del Mattino è

una piramide a scale. In cima s'alzano

quattro cariatidi cilindriche, dette

"atlanti" che rappresentano il dio

Quetzalcoatl come Stella del Mattino

(per via d'una farfalla che portano

sulla schiena, simbolo della stella),

e quattro colonne scolpite, che

rappresentano il Serpente Piumato,

cioè sempre lo stesso dio sotto forma

animale.

  Tutto questo non c'è che crederlo

sulla parola; d'altra parte sarebbe

difficile dimostrare il contrario.

Nell'archeologia messicana ogni

statua, ogni oggetto, ogni dettaglio

di bassorilievo significa qualcosa che

significa qualcosa che a sua volta

significa qualcosa. Un animale

significa un dio che significa una

stella che significa un elemento o una

qualità umana e cos¡ via. Siamo nel

mondo della scrittura pittografica,

gli antichi Messicani per scrivere

disegnavano figure, e anche quando

disegnavano era come scrivessero: ogni

figura si presenta come un rebus da

decifrare. Anche i fregi più astratti

e geometrici sul muro d'un tempio

possono essere interpretati come

saette se vi si vede un motivo di

linee spezzate, o vi si può leggere

una successione numerica a seconda del

modo in cui si susseguono le greche.

Qui a Tula i bassorilievi ripetono

figure animali stilizzate: giaguari,

coyotes. L'amico messicano si sofferma

su ogni pietra, la trasforma in

racconto cosmico, in allegoria, in

riflessione morale.

  Tra le rovine sfila una scolaresca:

ragazzotti dai lineamenti di indios,

forse discendenti dei costruttori di

quei templi, in una semplice divisa

bianca tipo boy-scout con fazzoletti

azzurri. I ragazzi sono guidati da un

maestro non molto più alto di loro e

appena più adulto, con la stessa tonda

e ferma faccia bruna. Salgono gli alti

gradini della piramide, si soffermano

sotto le colonne, il maestro dice a

che civiltà appartengono, a che

secolo, in che pietra sono scolpite,

poi conclude: "Non si sa cosa vogliono

dire" e la scolaresca lo segue giù

nella discesa. A ogni statua, a ogni

figura scolpita su un bassorilievo o

su una colonna il maestro fornisce

alcuni dati di fatto e aggiunge

invariabilmente: "Non si sa cosa vuol

dire".

  Ecco un chac-mool, tipo di statua

assai diffusa: una figura umana

semisdraiata regge un vassoio; è su

quel vassoio, dicono unanimi gli

esperti, che venivano presentati i

cuori sanguinanti delle vittime dei

sacrifici umani. Queste statue in sé e

per sé potrebbero anche essere viste

come dei bonari, rozzi pupazzi; ma il

signor Palomar ogni volta che ne vede

una non può fare a meno di

rabbrividire.

  Passa la fila degli scolari. E il

maestro: "Esto es un chac-mool. No

se sabe lo quiere dec¡r", e passa

oltre.

  Il signor Palomar, pur seguendo le

spiegazioni dell'amico che lo guida,

finisce sempre per incrociare la

scolaresca e per cogliere le parole

del maestro. E' affascinato dalla

ricchezza dei riferimenti mitologici

dell'amico: il gioco

dell'interpretare, la lettura

allegorica gli sono sempre sembrati un

sovrano esercizio della mente. Ma si

sente attratto anche

dall'atteggiamento opposto del maestro

di scuola: quella che gli era parsa

dapprincipio solo una sbrigativa

mancanza d'interesse, gli si va

rivelando come un'impostazione

scientifica e pedagogica, una scelta

di metodo di questo giovane grave e

coscienzioso, una regola a cui non

vuole derogare. Una pietra, una

figura, un segno, una parola che ci

arrivano isolati dal loro contesto

sono solo quella pietra, quella

figura, quel segno o parola: possiamo

tentare di definirli, di descriverli

in quanto tali, e basta; se oltre la

faccia che presentano a noi essi anche

hanno una faccia nascosta, a noi non è

dato di saperlo. Il rifiuto di

comprendere più di quello che queste

pietre ci mostrano è forse il solo

modo possibile per dimostrare rispetto

del loro segreto; tentare d'indovinare

è presunzione, tradimento di quel vero

significato perduto.

  Dietro la piramide passa un

corridoio o camminamento tra due muri,

uno di terra battuta, l'altro di

pietra scolpita: il Muro dei Serpenti.

E' forse il pezzo più bello di Tula:

nel fregio in rilievo si susseguono

serpenti ognuno dei quali tiene un

teschio umano nelle fauci aperte come

stesse per divorarlo.

  Passano i ragazzi. E il maestro:

"Questo è il muro dei serpenti. Ogni

serpente tiene in bocca un teschio.

Non si sa cosa significano".

  L'amico non sa contenersi: "S¡ che

si sa! E' la continuità della vita e

della morte, i serpenti sono la vita,

i teschi sono la morte; la vita che è

vita perché porta con sé la morte e la

morte che è morte perché senza morte

non c'è vita..."

  I ragazzotti stanno a sentire a

bocca aperta, i neri occhi attoniti.

Il signor Palomar pensa che ogni

traduzione richiede un'altra

traduzione e cos¡ via. Si domanda:

"Cosa voleva dire morte, vita,

continuità, passaggio, per gli antichi

Toltechi? E cosa può voler dire per

questi ragazzi? E per me?" Eppure sa

che non potrebbe mai soffocare in sé

il bisogno di tradurre, di passare da

un linguaggio all'altro, da figure

concrete a parole astratte, da simboli

astratti a esperienze concrete, di

tessere e ritessere una rete

d'analogie. Non interpretare è

impossibile, come è impossibile

trattenersi dal pensare.

  Appena la scolaresca è scomparsa a

una svolta, la voce ostinata del

piccolo maestro riprende: "No es

verdad, non è vero quello che vi ha

detto quel se¤or. Non si sa cosa

significano".

 

 

         La pantofola spaiata

  In viaggio in un paese dell'Oriente,

il signor Palomar ha comprato in un

bazar un paio di pantofole. Tornato a

casa, prova a calzarle: s'accorge che

una pantofola è più larga dell'altra e

gli cade dal piede. Ricorda il vecchio

venditore seduto sui calcagni in una

nicchia del bazar davanti a un mucchio

di pantofole di tutte le dimensioni,

alla rinfusa; lo vede mentre fruga nel

mucchio per trovare una pantofola

adatta al suo piede e glie la fa

provare, poi si rimette a frugare e

gli consegna la presunta compagna, che

lui accetta senza provarla.

  "Forse adesso, - pensa il signor

Palomar, - un altro uomo sta

camminando per quel paese con due

pantofole spaiate". E vede una smilza

ombra percorrere il deserto

zoppicando, con una calzatura che gli

sguscia dal piede a ogni passo, oppure

troppo stretta, che gli imprigiona il

piede contorto. "Forse anche lui in

questo momento pensa a me, spera

d'incontrarmi per fare il cambio. Il

rapporto che ci lega è più concreto e

chiaro di gran parte delle relazioni

che si stabiliscono tra esseri umani.

Eppure non ci incontreremo mai".

Decide di continuare a portare queste

pantofole spaiate per solidarietà col

suo compagno di sventura ignoto, per

tener viva questa complementarità cos¡

rara, questo specchiarsi di passi

zoppicanti da un continente all'altro.

  Indugia nel rappresentarsi

quest'immagine, ma sa che non

corrisponde al vero. Una valanga di

pantofole cucite in serie viene

periodicamente a rifornire il mucchio

del vecchio mercante di quel bazar.

Nel fondo del mucchio resteranno

sempre due pantofole scompagnate, ma

finché il vecchio mercante non

esaurirà le sue scorte (e forse non le

esaurirà mai, e morto lui la bottega

con tutte le merci passerà ai suoi

eredi e agli eredi degli eredi),

basterà cercare nel mucchio e si

troverà sempre una pantofola da

appaiare a un'altra pantofola. Solo

con un acquirente distratto come lui

può verificarsi un errore, ma possono

passare secoli prima che le

conseguenze di questo errore si

ripercuotano su un altro frequentatore

di quell'antico bazar. Ogni processo

di disgregazione dell'ordine del mondo

è irreversibile, ma gli effetti

vengono nascosti e ritardati dal

pulviscolo dei grandi numeri che

contiene possibilità praticamente

illimitate di nuove simmetrie,

combinazioni, appaiamenti.

  Ma se il suo errore non avesse fatto

che cancellare un errore precedente?

Se la sua distrazione fosse stata

apportatrice non di disordine ma

d'ordine? "Forse il mercante sapeva

bene quel che faceva, - pensa il

signor Palomar, - dandomi quella

pantofola spaiata ha messo riparo a

una disparità che da secoli si

nascondeva in quel mucchio di

pantofole, tramandato da generazioni

in quel bazar".

  Il compagno ignoto forse zoppicava

in un'altra epoca, la simmetria dei

loro passi si risponde non solo da un

continente all'altro, ma a distanza di

secoli. Non per questo il signor

Palomar si sente meno solidale con

lui. Continua a ciabattare

faticosamente per dar sollievo alla

sua ombra.

 

 

 

 

 

          Palomar in società

        Del mordersi la lingua

  In un'epoca e in un paese in cui

tutti si fanno in quattro per

proclamare opinioni o giudizi, il

signor Palomar ha preso l'abitudine di

mordersi la lingua tre volte prima di

fare qualsiasi affermazione. Se al

terzo morso di lingua è ancora

convinto della cosa che stava per

dire, la dice; se no sta zitto. Di

fatto, passa settimane e mesi interi

in silenzio.

  Buone occasioni per tacere non

mancano mai, ma si dà pure il raro

caso che il signor Palomar rimpianga

di non aver detto qualcosa che avrebbe

potuto dire al momento opportuno.

S'accorge che i fatti hanno confermato

quel che lui pensava, e che se allora

avesse espresso il suo pensiero forse

avrebbe avuto una qualche influenza

positiva, sia pur minima, su quel che

è avvenuto. In questi casi il suo

animo è diviso tra il compiacimento

d'aver pensato giusto e un senso di

colpa per la sua eccessiva

riservatezza. Sentimenti entrambi cos¡

forti, che egli è tentato d'esprimerli

a parole; ma dopo essersi morsicato la

lingua tre volte, anzi sei, si

convince che non ha nessun motivo né

d'orgoglio né di rimorso.

  L'aver pensato rettamente non è un

merito: statisticamente è quasi

inevitabile che tra le molte idee

sballate, confuse o banali che gli si

presentano alla mente, qualcuna ve ne

sia di perspicua o addirittura

geniale; e come è venuta a lui, può

esser certo che sarà venuta pure a

qualcun altro.

  Più controverso è il giudizio sul

non aver manifestato il suo pensiero.

In tempi di generale silenzio, il

conformarsi al tacere dei più è certo

colpevole. In tempi in cui tutti

dicono troppo, l'importante non è

tanto il dire la cosa giusta, che

comunque si perderebbe

nell'inondazione di parole, quanto il

dirla partendo da premesse e

implicando conseguenze che diano alla

cosa detta il massimo valore. Ma

allora, se il valore d'una singola

affermazione sta nella continuità e

coerenza del discorso in cui trova

posto, la scelta possibile è solo

quella tra il parlare in continuazione

e il non parlare mai. Nel primo caso

il signor Palomar rivelerebbe che il

suo pensiero non procede in linea

retta ma a zigzag, attraverso

oscillazioni, smentite, correzioni, in

mezzo alle quali la giustezza di

quella sua affermazione si perderebbe.

Quanto alla seconda alternativa, essa

implica un'arte del tacere più

difficile ancora dell'arte del dire.

  Infatti, anche il silenzio può

essere considerato un discorso, in

quanto rifiuto dell'uso che altri

fanno della parola; ma il senso di

questo silenzio-discorso sta nelle sue

interruzioni, cioè in ciò che di tanto

in tanto si dice e che dà un senso a

ciò che si tace.

  O meglio: un silenzio può servire a

escludere certe parole oppure a

tenerle in serbo perché possano essere

usate in un'occasione migliore. Cos¡

come una parola detta adesso può

risparmiarne cento domani oppure

obbligare a dirne altre mille. "Ogni

volta che mi mordo la lingua, -

conclude mentalmente il signor

Palomar, - devo pensare non solo a

quel che sto per dire o non dire, ma a

tutto ciò che se io dico o non dico

sarà detto o non detto da me o dagli

altri". Formulato questo pensiero, si

morde la lingua e resta in silenzio.

 

 

     Del prendersela coi giovani

  In un'epoca in cui l'insofferenza

degli anziani per i giovani e dei

giovani per gli anziani ha raggiunto

il suo culmine, in cui gli anziani non

fanno altro che accumulare argomenti

per dire finalmente ai giovani quel

che si meritano e i giovani non

aspettano altro che queste occasioni

per dimostrare che gli anziani non

capiscono niente, il signor Palomar

non riesce a spiccicare parola. Se

qualche volta prova a interloquire,

s'accorge che tutti sono troppo

infervorati nelle tesi che stanno

sostenendo per dar retta a quel che

lui sta cercando di chiarire a se

stesso.

  Il fatto è che lui più che affermare

una sua verità vorrebbe fare delle

domande, e capisce che nessuno ha

voglia di uscire dai binari del

proprio discorso per rispondere a

domande che, venendo da un altro

discorso, obbligherebbero a ripensare

le stesse cose con altre parole, e

magari a trovarsi in territori

sconosciuti, lontani dai percorsi

sicuri. Oppure vorrebbe che le domande

le facessero gli altri a lui; ma anche

a lui piacerebbero solo certe domande

e non altre: quelle a cui

risponderebbe dicendo le cose che

sente di poter dire ma che potrebbe

dire solo se qualcuno gli chiedesse di

dirle. Comunque nessuno si sogna di

chiedergli niente.

  Stando cos¡ le cose il signor

Palomar si limita a rimuginare tra sé

sulla difficoltà di parlare ai

giovani.

  Pensa: "La difficoltà viene dal

fatto che tra noi e loro c'è un fosso

incolmabile. Qualcosa è successo tra

la nostra generazione e la loro, una

continuità d'esperienze si è spezzata:

non abbiamo più punti di riferimento

in comune".

  Poi pensa: "No, la difficoltà viene

dal fatto che ogni volta che sto per

rivolgere loro un rimprovero o una

critica o un'esortazione o un

consiglio, penso che anch'io da

giovane mi attiravo rimproveri

critiche esortazioni consigli dello

stesso genere, e non li stavo a

sentire. I tempi erano diversi e ne

risultavano molte differenze nel

comportamento, nel linguaggio, nel

costume, ma i miei meccanismi mentali

d'allora non erano molto diversi dai

loro oggi. Dunque non ho nessuna

autorità per parlare".

  Il signor Palomar oscilla a lungo

tra questi due modi di considerare la

questione. Poi decide: "Non c'è

contraddizione tra le due posizioni.

La soluzione di continuità tra le

generazioni dipende dall'impossibilità

di trasmettere l'esperienza, di far

evitare agli altri gli errori già

commessi da noi. La vera distanza tra

due generazioni è data dagli elementi

che esse hanno in comune e che

obbligano alla ripetizione ciclica

delle stesse esperienze, come nei

comportamenti delle specie animali

trasmessi come eredità biologica;

mentre invece gli elementi di vera

diversità tra noi e loro sono il

risultato dei cambiamenti

irreversibili che ogni epoca porta con

sé, cioè dipendono dalla eredità

storica che noi abbiamo trasmesso a

loro, la vera eredità di cui siamo

responsabili, anche se talora

inconsapevoli. Per questo non abbiamo

niente da insegnare: su ciò che più

somiglia alla nostra esperienza non

possiamo influire; in ciò che porta la

nostra impronta non sappiamo

riconoscerci".

 

 

        Il modello dei modelli

  Nella vita del signor Palomar c'è

stata un'epoca in cui la sua regola

era questa: primo, costruire nella sua

mente un modello, il più perfetto,

logico, geometrico possibile; secondo,

verificare se il modello s'adatta ai

casi pratici osservabili

nell'esperienza; terzo, apportare le

correzioni necessarie perché modello e

realtà coincidano. Questo

procedimento, elaborato dai fisici e

dagli astronomi che indagano sulla

struttura della materia e

dell'universo, pareva a Palomar il

solo che gli permettesse d'affrontare

i più aggrovigliati problemi umani, e

in primo luogo quelli della società e

del miglior modo di governare.

Bisognava riuscire a tener presenti da

una parte la realtà informe e

dissennata della convivenza umana, che

non fa che generare mostruosità e

disastri, e dall'altra un modello

d'organismo sociale perfetto,

disegnato con linee nettamente

tracciate, rette e circoli ed ellissi,

parallelogrammi di forme, diagrammi

con ascisse e ordinate.

  Per costruire un modello - Palomar

lo sapeva -, occorre partire da

qualcosa, cioè bisogna avere dei

principŒ da cui far discendere per

deduzione il proprio ragionamento.

Questi principŒ - detti anche assiomi

o postulati - uno non se li sceglie ma

li ha già, perché se non li avesse non

potrebbe nemmeno mettersi a pensare.

Anche Palomar dunque ne aveva, ma -

non essendo né un matematico né un

logico - non si curava di definirli.

Dedurre era comunque una delle sue

attività preferite, perché poteva

dedicarvisi da solo e in silenzio,

senza speciali attrezzature, in

qualsiasi posto e momento, seduto in

poltrona o passeggiando. Verso

l'induzione invece aveva una certa

diffidenza, forse perché le sue

esperienze gli parevano approssimative

e parziali. La costruzione d'un

modello era dunque per lui un miracolo

d'equilibrio tra i principŒ (lasciati

nell'ombra) e l'esperienza

(inafferrabile), ma il risultato

doveva avere una consistenza molto più

solida degli uni e dell'altra. In un

modello ben costruito, infatti, ogni

dettaglio dev'essere condizionato

dagli altri, per cui tutto si tiene

con assoluta coerenza, come in un

meccanismo dove se si blocca un

ingranaggio tutto si blocca. Il

modello è per definizione quello in

cui non c'è niente da cambiare, quello

che funziona alla perfezione; mentre

la realtà vediamo bene che non

funziona e che si spappola da tutte le

parti; dunque non resta che

costringerla a prendere la forma del

modello, con le buone o con le

cattive.

  Per molto tempo il signor Palomar si

è sforzato di raggiungere

un'impassibilità e un distacco tali

per cui ciò che conta è solo la serena

armonia delle linee del disegno: tutte

le lacerazioni e contorsioni e

compressioni che la realtà umana deve

subire per identificarsi al modello

dovevano essere considerate accidenti

momentanei e irrilevanti. Ma se per un

istante egli smetteva di fissare

l'armoniosa figura geometrica

disegnata nel cielo dei modelli

ideali, gli saltava agli occhi un

paesaggio umano in cui le mostruosità

e i disastri non erano affatto spariti

e le linee del disegno apparivano

deformate e contorte.

  Quel che ci voleva allora era un

sottile lavoro d'aggiustamento, che

apportasse graduali correzioni al

modello per avvicinarlo a una

possibile realtà, e alla realtà per

avvicinarla al modello. Infatti il

grado di duttilità della natura umana

non è illimitato come in un primo

tempo egli credeva; e in compenso

anche il modello più rigido può dar

prova d'una qualche elasticità

inaspettata. Insomma se il modello non

riesce a trasformare la realtà, la

realtà dovrebbe riuscire a trasformare

il modello.

  La regola del signor Palomar a poco

a poco era andata cambiando: adesso

gli ci voleva una gran varietà di

modelli, magari trasformabili l'uno

nell'altro secondo un procedimento

combinatorio, per trovare quello che

calzasse meglio su una realtà che a

sua volta era sempre fatta di tante

realtà diverse, nel tempo e nello

spazio.

  In tutto questo, non che Palomar

elaborasse lui stesso dei modelli o

s'adoperasse ad applicarne dei già

elaborati: egli si limitava a

immaginare un giusto uso di giusti

modelli per colmare l'abisso che

vedeva spalancarsi sempre di più tra

la realtà e i principŒ. Insomma, il

modo in cui i modelli potevano essere

manovrati e gestiti non entrava nelle

sue competenze né nelle sue

possibilità d'intervento. Di queste

cose s'occupano abitualmente persone

molto diverse da lui, che ne giudicano

la funzionalità secondo altri criteri:

come strumenti di potere, soprattutto,

più che secondo i principŒ o le

conseguenze nella vita della gente.

Cosa questa abbastanza naturale, dato

che ciò che i modelli cercano di

modellare è pur sempre un sistema di

potere; ma se l'efficacia del sistema

si misura sulla sua invulnerabilità e

capacità di durare, il modello diventa

una specie di fortezza le cui spesse

muraglie nascondono quello che c'è

fuori. Palomar che dai poteri e dai

contropoteri s'aspetta sempre il

peggio, ha finito per convincersi che

ciò che conta veramente è ciò che

avviene nonostante loro: la forma che

la società va prendendo lentamente,

silenziosamente, anonimamente, nelle

abitudini, nel modo di pensare e di

fare, nella scala dei valori. Se le

cose stanno cos¡, il modello dei

modelli vagheggiato da Palomar dovrà

servire a ottenere dei modelli

trasparenti, diafani, sottili come

ragnatele; magari addirittura a

dissolvere i modelli, anzi a

dissolversi.

  A questo punto a Palomar non restava

che cancellare dalla sua mente i

modelli e i modelli di modelli.

Compiuto anche questo passo, ecco si

trova faccia a faccia con la realtà

mal padroneggiabile e non

omogeneizzabile, a formulare i suoi

"s¡", i suoi "no", i suoi "ma". Per

far questo, è meglio che la mente

resti sgombra, ammobiliata solo dalla

memoria di frammenti d'esperienza e di

principŒ sottintesi e non

dimostrabili. Non è una linea di

condotta da cui egli possa ricavare

soddisfazioni speciali, ma è la sola

che gli risulta praticabile.

  Finché si tratta di riprovare i

guasti della società e gli abusi di

chi abusa, egli non ha esitazioni (se

non in quanto teme che, a parlarne

troppo, anche le cose più giuste

possano suonare ripetitive, ovvie,

stracche). Più difficile trova

pronunciarsi sui rimedi, perché prima

vorrebbe sincerarsi che non provochino

guasti e abusi maggiori e che, se

saggiamente predisposti da riformatori

illuminati, possano poi essere messi

in pratica senza danno dai loro

successori: forse inetti, forse

prevaricatori, forse inetti e

prevaricatori a un tempo.

  Non gli manca che esporre questi bei

pensieri in forma sistematica, ma uno

scrupolo lo trattiene: e se ne venisse

fuori un modello? Cos¡ preferisce

tenere le sue convinzioni allo stato

fluido, verificarle caso per caso e

farne la regola implicita del proprio

comportamento quotidiano, nel fare o

nel non fare, nello scegliere o

escludere, nel parlare o nel tacere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      Le meditazioni di Palomar

       Il mondo guarda il mondo

  In seguito a una serie di

disavventure intellettuali che non

meritano d'essere ricordate, il signor

Palomar ha deciso che la sua

principale attività sarà guardare le

cose dal di fuori. Un po' miope,

distratto, introverso, egli non sembra

rientrare per temperamento in quel

tipo umano che viene di solito

definito un osservatore. Eppure gli è

sempre successo che certe cose - un

muro di pietre, un guscio di

conchiglia, una foglia, una teiera, -

gli si presentino come chiedendogli

un'attenzione minuziosa e prolungata:

egli si mette ad osservarle quasi

senza rendersene conto e il suo

sguardo comincia a percorrere tutti i

dettagli, e non riesce più a

staccarsene. Il signor Palomar ha

deciso che d'ora in avanti raddoppierà

la sua attenzione: primo, nel non

lasciarsi sfuggire questi richiami che

gli arrivano dalle cose; secondo,

nell'attribuire all'operazione

dell'osservare l'importanza che essa

merita.

  A questo punto sopravviene un primo

momento di crisi: sicuro che d'ora in

poi il mondo gli svelerà una ricchezza

infinita di cose da guardare, il

signor Palomar prova a fissare tutto

ciò che gli capita a tiro: non glie ne

viene alcun piacere, e smette. Segue

una seconda fase in cui egli è

convinto che le cose da guardare sono

solo alcune e non altre, e lui deve

andarsele a cercare; per far questo

deve affrontare ogni volta problemi di

scelte, esclusioni, gerarchie di

preferenze; presto s'accorge che sta

guastando tutto, come sempre quando

egli mette di mezzo il proprio io e

tutti i problemi che ha col proprio

io.

  Ma come si fa a guardare qualcosa

lasciando da parte l'io? Di chi sono

gli occhi che guardano? Di solito si

pensa che l'io sia uno che sta

affacciato ai propri occhi come al

davanzale d'una finestra e guarda il

mondo che si distende in tutta la sua

vastità lì davanti a lui. Dunque: c'è

una finestra che s'affaccia sul mondo.

Di là c'è il mondo; e di qua? Sempre

il mondo: cos'altro volete che ci sia?

Con un piccolo sforzo di

concentrazione Palomar riesce a

spostare il mondo da lì davanti e a

sistemarlo affacciato al davanzale.

Allora, fuori della finestra, cosa

rimane? Il mondo anche lì, che per

l'occasione s'è sdoppiato in mondo che

guarda e mondo che è guardato. E lui,

detto anche "io", cioè il signor

Palomar? Non è anche lui un pezzo di

mondo che sta guardando un altro pezzo

di mondo? Oppure, dato che c'è mondo

di qua e mondo di là della finestra,

forse l'io non è altro che la finestra

attraverso la quale il mondo guarda il

mondo. Per guardare se stesso il mondo

ha bisogno degli occhi (e degli

occhiali) del signor Palomar.

  Dunque, d'ora in avanti Palomar

guarderà le cose dal di fuori e non

dal di dentro; ma questo non basta: le

guarderà con uno sguardo che viene dal

di fuori, non da dentro di lui. Cerca

di far subito l'esperimento: ora non è

lui a guardare, ma è il mondo di fuori

che guarda fuori. Stabilito questo,

egli gira lo sguardo intorno in attesa

d'una trasfigurazione generale.

Macché. E' il solito grigiore

quotidiano che lo circonda. Bisogna

ristudiare tutto da capo. Che sia il

fuori a guardare fuori non basta: è

dalla cosa guardata che deve partire

la traiettoria che la collega alla

cosa che guarda.

  Dalla muta distesa delle cose deve

partire un segno, un richiamo, un

ammicco: una cosa si stacca dalle

altre con l'intenzione di significare

qualcosa... che cosa? se stessa, una

cosa è contenta d'essere guardata

dalle altre cose solo quando è

convinta di significare se stessa e

nient'altro, in mezzo alle cose che

significano se stesse e nient'altro.

  Le occasioni di questo genere non

sono certo frequenti, ma prima o poi

dovranno pur presentarsi: basta

aspettare che si verifichi una di

quelle fortunate coincidenze in cui il

mondo vuole guardare ed essere

guardato nel medesimo istante e il

signor Palomar si trovi a passare lì

in mezzo. Ossia, il signor Palomar non

deve nemmeno aspettare, perché queste

cose accadono soltanto quando meno ci

s'aspetta.

 

 

       L'universo come specchio

  Il signor Palomar soffre molto della

sua difficoltà di rapporti col

prossimo. Invidia le persone che hanno

il dono di trovare sempre la cosa

giusta da dire, il modo giusto di

rivolgersi a ciascuno; che sono a loro

agio con chiunque si trovino e che

mettono gli altri a loro agio; che

muovendosi con leggerezza tra la gente

capiscono subito quando devono

difendersene e prendere le loro

distanze e quando guadagnarsi la

simpatia e la confidenza; che dànno il

meglio di sé nel rapporto con gli

altri e invogliano gli altri a dare il

loro meglio; che sanno subito quale

conto fare d'una persona in rapporto a

sé e in assoluto.

  "Queste doti, - pensa Palomar col

rimpianto di chi ne è privo, - sono

concesse a chi vive in armonia col

mondo. A costoro riesce naturale

stabilire un accordo non solo con le

persone ma pure con le cose, con i

luoghi, le situazioni, le occasioni,

con lo scorrere delle costellazioni

nel firmamento, con l'aggregarsi degli

atomi nelle molecole. Quella valanga

d'avvenimenti simultanei che chiamiamo

l'universo non travolge il fortunato

che sa sgusciare per gli interstizi

più sottili tra le infinite

combinazioni, permutazioni e catene di

conseguenze, evitando le traiettorie

dei meteoriti micidiali e

intercettando al volo solo i raggi

benefici. A chi è amico dell'universo,

l'universo è amico. Potessi mai, -

sospira Palomar, - essere anch'io

cos¡!"

  Decide di provare a imitarli. Tutti

i suoi sforzi, d'ora in poi, saranno

tesi a raggiungere un'armonia tanto

col genere umano a lui prossimo quanto

con la spirale più lontana del sistema

delle galassie. Per cominciare, dato

che col suo prossimo ha troppi

problemi, Palomar cercherà di

migliorare i suoi rapporti con

l'universo. Allontana e riduce al

minimo la frequentazione dei suoi

simili; s'abitua a fare il vuoto nella

sua mente, espellendone tutte le

presenze indiscrete; osserva il cielo

nelle notti stellate; legge libri

d'astronomia; si familiarizza con

l'idea degli spazi siderei finché

questa non diventa una suppellettile

permanente del suo arredamento

mentale. Poi cerca di fare in modo che

i suoi pensieri tengano presenti

contemporaneamente le cose più vicine

e le più lontane: quando accende la

pipa l'attenzione per la fiamma dello

zolfanello che alla prossima tirata

dovrebbe lasciarsi aspirare fino in

fondo al fornello dando inizio alla

lenta trasformazione in brace dei fili

di tabacco, non deve fargli

dimenticare nemmeno per un attimo

l'esplosione d'una supernova che si

sta producendo nella Grande Nube di

Magellano in questo stesso istante,

cioè qualche milione d'anni fa. L'idea

che tutto nell'universo si collega e

si risponde non l'abbandona mai: una

variazione di luminosità nella

Nebulosa del Granchio o l'addensarsi

d'un ammasso globulare in Andromeda

non possono non avere una qualche

influenza sul funzionamento del suo

giradischi o sulla freschezza delle

foglie di crescione nel suo piatto

d'insalata.

  Quando è convinto d'aver esattamente

delimitato il proprio posto in mezzo

alla muta distesa delle cose

galleggianti nel vuoto, tra il

pulviscolo d'eventi attuali o

possibili che si libra nello spazio e

nel tempo, Palomar decide che è venuto

il momento di applicare questa

saggezza cosmica al rapporto coi suoi

simili. S'affretta a tornare in

società, riallaccia conoscenze,

amicizie, rapporti d'affari, sottopone

a un attento esame di coscienza i suoi

legami e i suoi affetti. S'aspetta di

vedere estendersi davanti a sé un

paesaggio umano finalmente netto,

chiaro, senza nebbie, in cui egli

potrà muoversi con gesti precisi e

sicuri. E' cos¡? Nient'affatto.

Comincia a impelagarsi in un garbuglio

di malintesi, vacillazioni,

compromessi, atti mancati; le

questioni più futili diventano

angoscianti, le più gravi

s'appiattiscono; ogni cosa che lui

dice o fa risulta maldestra, stonata,

irresoluta. Cos'è che non funziona?

  Questo: contemplando gli astri lui

s'è abituato a considerarsi un punto

anonimo e incorporeo, quasi a

dimenticarsi d'esistere; per trattare

adesso con gli esseri umani non può

fare a meno di mettere in gioco se

stesso, e il suo se stesso lui non sa

più dove si trova. Di fronte a ogni

persona uno dovrebbe sapere come

situarsi in rapporto a essa, esser

sicuro della reazione che ispira in

lui la presenza dell'altro -

avversione o attrazione, ascendente

sub¡to o imposto, curiosità o

diffidenza o indifferenza, dominio o

sudditanza, discepolanza o magistero,

spettacolo come attore o come

spettatore, - e in base a queste e

alle controreazioni dell'altro

stabilire le regole del gioco da

applicare nella loro partita, le mosse

e le contromosse da giocare. Per tutto

questo uno prima ancora di mettersi a

osservare gli altri dovrebbe sapere

bene chi è lui. La conoscenza del

prossimo ha questo di speciale: passa

necessariamente attraverso la

conoscenza di se stesso; ed è proprio

questa che manca a Palomar. Non solo

conoscenza ci vuole, ma comprensione,

accordo con i propri mezzi e fini e

pulsioni, il che vuol dire possibilità

d'esercitare una padronanza sulle

proprie inclinazioni e azioni, che le

controlli e diriga ma non le coarti e

non le soffochi. Le persone di cui

egli ammira la giustezza e naturalezza

d'ogni parola e d'ogni gesto sono,

prima ancora che in pace con

l'universo, in pace con se stessi.

Palomar, non amandosi, ha sempre fatto

in modo di non incontrarsi con se

stesso faccia a faccia; è per questo

che ha preferito rifugiarsi tra le

galassie; ora capisce che è col

trovare una pace interiore che doveva

cominciare. L'universo forse può andar

tranquillo per i fatti suoi; lui

certamente no.

  La strada che gli resta aperta è

questa: si dedicherà d'ora in poi alla

conoscenza di se stesso, esplorerà la

propria geografia interiore, traccerà

il diagramma dei moti del suo animo,

ne ricaverà le formule e i teoremi,

punterà il suo telescopio sulle orbite

tracciate dal corso della sua vita

anziché su quelle delle costellazioni.

"Non possiamo conoscere nulla

d'esterno a noi scavalcando noi

stessi, - egli pensa ora, - l'universo

è lo specchio in cui possiamo

contemplare solo ciò che abbiamo

imparato a conoscere in noi".

  Ed ecco che anche questa nuova fase

del suo itinerario alla ricerca della

saggezza si compie. Finalmente egli

potrà spaziare con lo sguardo dentro

di sé. Cosa vedrà? Gli apparirà il suo

mondo interiore come un calmo immenso

ruotare d'una spirale luminosa? Vedrà

navigare in silenzio stelle e pianeti

sulle parabole e le ellissi che

determinano il carattere e il destino?

Contemplerà una sfera di circonferenza

infinita che ha l'io per centro e il

centro in ogni punto?

  Apre gli occhi: quel che appare al

suo sguardo gli sembra d'averlo già

visto tutti i giorni: vie piene di

gente che ha fretta e si fa largo a

gomitate, senza guardarsi in faccia,

tra alte mura spigolose e scrostate.

In fondo, il cielo stellato sprizza

bagliori intermittenti come un

meccanismo inceppato, che sussulta e

cigola in tutte le sue giunture non

oliate, avamposti d'un universo

pericolante, contorto, senza requie

come lui.

 

 

     Come imparare a essere morto

  Il signor Palomar decide che d'ora

in poi farà come se fosse morto, per

vedere come va il mondo senza di lui.

Da un po' di tempo s'è accorto che tra

lui e il mondo le cose non vanno più

come prima; se prima gli pareva che

s'aspettassero qualcosa l'uno

dall'altro, lui e il mondo, adesso non

ricorda più cosa ci fosse da

aspettarsi, in male o in bene, né

perché questa attesa lo tenesse in una

perpetua agitazione ansiosa.

  Dunque ora il signor Palomar

dovrebbe provare una sensazione di

sollievo, non avendo più da chiedersi

cosa il mondo gli prepara, e dovrebbe

anche avvertire il sollievo del mondo,

che non ha più da preoccuparsi di lui.

Ma proprio l'attesa di assaporare

questa calma basta a rendere ansioso

il signor Palomar.

  Insomma, essere morto è meno facile

di quel che può sembrare. Per prima

cosa, non si deve confondere l'essere

morto col non esserci, condizione che

occupa anche la sterminata distesa di

tempo precedente alla nascita,

apparentemente simmetrica a quella

altrettanto sconfinata che segue alla

morte. Infatti, prima di nascere

facciamo parte delle infinite

possibilità a cui toccherà o non

toccherà di realizzarsi, mentre una

volta morti, non possiamo realizzarci

né nel passato (a cui apparteniamo

ormai interamente ma su cui non

possiamo più influire) né nel futuro

(che, se pur influenzato da noi, ci

rimane vietato). Il caso del signor

Palomar è in realtà più semplice, in

quanto la sua capacità d'influire su

qualcosa o qualcuno è sempre stata

trascurabile; il mondo può benissimo

fare a meno di lui, e lui può

considerarsi morto in tutta

tranquillità, senza nemmeno cambiare

le sue abitudini. Il problema è il

cambiamento non in ciò che lui fa ma

in ciò che lui è, e più precisamente

in ciò che lui è in rapporto al mondo.

Prima, per mondo lui intendeva il

mondo più lui; adesso si tratta di lui

più il mondo meno lui.

  Il mondo meno lui vorrà dire la fine

dell'ansia? Un mondo in cui le cose

avvengono indipendentemente dalla sua

presenza e dalle sue reazioni,

seguendo una loro legge o necessità o

ragione che a lui non riguarda? Batte

l'onda sullo scoglio e scava la

roccia, un'altra onda sopravviene,

un'altra, un'altra ancora; che lui ci

sia o non ci sia, tutto continua ad

avvenire. Il sollievo d'essere morto

dovrebbe essere questo: eliminata

quella macchia d'inquietudine che è la

nostra presenza, la sola cosa che

conta è l'estendersi e il succedersi

delle cose sotto il sole, nella loro

serenità impassibile. Tutto è calma o

tende alla calma, anche gli uragani, i

terremoti, l'eruzione dei vulcani. Ma

non era già questo il mondo quando lui

era lì? Quando ogni tempesta portava

in sé la pace del dopo, preparava il

momento in cui tutte le ondate si

saranno abbattute contro la riva, e il

vento avrà esaurito la sua forza?

Forse essere morto è passare

nell'oceano delle onde che restano

onde per sempre, dunque è inutile

aspettare che il mare si calmi.

 

  Lo sguardo dei morti è sempre un po'

deprecatorio. Luoghi, situazioni,

occasioni sono grosso modo quelli che

uno già sapeva, e riconoscerli dà

sempre una certa soddisfazione, ma

nello stesso tempo si notano tante

variazioni piccole o grandi, le quali

in sé e per sé si potrebbero anche

accettare se corrispondessero a uno

svolgimento logico coerente, ma invece

risultano arbitrarie e irregolari e

questo dà fastidio, soprattutto perché

uno è sempre tentato d'intervenire ad

apportare quella correzione che gli

pare necessaria, e non può farlo

perché è morto. Da ciò un

atteggiamento di riluttanza, quasi

d'impaccio, ma nello stesso tempo di

sufficienza, come di colui che sa che

ciò che conta è la propria esperienza

passata e a tutto il resto non è il

caso di dare troppo peso. Poi un

sentimento dominante non tarda a

presentarsi e a imporsi su ogni

pensiero: ed è il sollievo di sapere

che tutti i problemi sono problemi

degli altri, fatti loro. Ai morti non

dovrebbe importare più niente di

niente perché non tocca più a loro

pensarci; e anche se ciò può sembrare

immorale, è in questa irresponsabilità

che i morti trovano la loro allegria.

  Più lo stato d'animo del signor

Palomar s'avvicina a quello qui

descritto, e più l'idea d'essere morto

gli si presenta come naturale. Certo,

non ha ancora trovato il sublime

distacco che credeva fosse proprio dei

morti, né una ragione che va al di là

d'ogni spiegazione, né l'uscita dai

propri limiti come da un tunnel che

sbocca su altre dimensioni. A tratti

s'illude d'essersi liberato almeno

dall'impazienza che l'ha accompagnato

tutta la vita al vedere gli altri

sbagliare in tutte le cose che fanno e

al pensare che anche lui al loro posto

sbaglierebbe non meno di loro ma

comunque se ne renderebbe conto. Non

se n'è liberato affatto, invece; e

capisce che l'insofferenza per gli

sbagli propri e altrui si perpetuerà

insieme agli sbagli stessi che nessuna

morte cancella. Dunque tanto vale

abituarcisi: essere morto per Palomar

significa abituarsi alla delusione di

ritrovarsi uguale a se stesso in uno

stato definitivo che non può più

sperare di cambiare.

  Palomar non sottovaluta i vantaggi

che la condizione del vivo può avere

su quella del morto, non nel senso del

futuro, dove i rischi sono sempre

molto forti e i benefici possono

essere di corta durata, ma nel senso

della possibilità di migliorare la

forma del proprio passato. (A meno che

uno sia già pienamente soddisfatto del

proprio passato, caso troppo poco

interessante perché valga la pena

d'occuparsene). La vita d'una persona

consiste in un insieme d'avvenimenti

di cui l'ultimo potrebbe anche

cambiare il senso di tutto l'insieme,

non perché conti di più dei precedenti

ma perché una volta inclusi in una

vita gli avvenimenti si dispongono in

un ordine che non è cronologico ma

risponde a un'architettura interna.

Uno per esempio legge in età matura un

libro importante per lui, che gli fa

dire: "Come potevo vivere senza averlo

letto!" e anche: "Che peccato che non

l'ho letto da giovane!" Ebbene, queste

affermazioni non hanno molto senso,

soprattutto la seconda, perché dal

momento che lui ha letto quel libro,

la sua vita diventa la vita di uno che

ha letto quel libro, e poco importa

che l'abbia letto presto o tardi,

perché anche la vita precedente alla

lettura ora assume una forma segnata

da quella lettura.

  Questo è il passo più difficile per

chi vuole imparare a essere morto:

convincersi che la propria vita è un

insieme chiuso, tutto al passato, a

cui non si può più aggiungere nulla,

né introdurre cambiamenti di

prospettiva nel rapporto tra i vari

elementi. Certo quelli che continuano

a vivere possono, in base ai

cambiamenti vissuti da loro,

introdurre dei cambiamenti anche nella

vita dei morti, dando forma a ciò che

non l'aveva o che sembrava avere una

forma diversa: riconoscendo per

esempio un giusto ribelle in chi era

stato vituperato per i suoi atti

contro la legge, celebrando un poeta o

un profeta in chi s'era sentito

condannare alla nevrosi o al delirio.

Ma sono cambiamenti che contano

soprattutto per i vivi. Loro, i morti,

è difficile che ne traggano profitto.

Ognuno è fatto di ciò che ha vissuto e

del modo in cui l'ha vissuto, e questo

nessuno può toglierglielo. Chi ha

vissuto soffrendo, resta fatto della

sua sofferenza; se pretendono di

togliergliela, non è più lui.

  Per questo Palomar si prepara a

diventare un morto scorbutico, che mal

sopporta la condanna a restare cos¡

com'è, ma non è disposto a rinunciare

a nulla di sé neanche se gli pesa.

 

  Certo si può anche puntare sui

dispositivi che assicurano la

sopravvivenza almeno d'una parte di sé

nella posterità, classificabili

soprattutto in due categorie: il

dispositivo biologico, che permette di

tramandare alla discendenza quella

parte di se stessi che si chiama

patrimonio genetico, e il dispositivo

storico, che permette di tramandare

nella memoria e nel linguaggio di chi

continua a vivere quel tanto o quel

poco d'esperienza che anche l'uomo più

sprovveduto raccoglie e accumula.

Questi dispositivi possono anche

essere visti come uno solo

presupponendo il susseguirsi delle

generazioni come le fasi della vita

d'una singola persona che continua per

secoli e millenni; ma cos¡ non si fa

che rinviare il problema, dalla

propria morte individuale

all'estinzione del genere umano, per

tardi che questa possa succedere.

  Palomar pensando alla propria morte

pensa già a quella degli ultimi

sopravvissuti della specie umana o dei

suoi derivati o eredi: sul globo

terrestre devastato e deserto sbarcano

gli esploratori d'un altro pianeta,

decifrano le tracce registrate nei

geroglifici delle piramidi e nelle

schede perforate dei calcolatori

elettronici; la memoria del genere

umano rinasce dalle sue ceneri e si

dissemina per le zone abitate

dell'universo. E cos¡ di rinvio in

rinvio si arriva al momento in cui

sarà il tempo a logorarsi e ad

estinguersi in un cielo vuoto, quando

l'ultimo supporto materiale della

memoria del vivere si sarà degradato

in una vampa di calore, o avrà

cristallizzato i suoi atomi nel gelo

d'un ordine immobile.

  "Se il tempo deve finire, lo si può

descrivere, istante per istante, -

pensa Palomar, - e ogni istante, a

descriverlo, si dilata tanto che non

se ne vede più la fine". Decide che si

metterà a descrivere ogni istante

della sua vita, e finché non li avrà

descritti tutti non penserà più

d'essere morto. In quel momento muore.